sabato 11 marzo 2017

Vita da osservatore: come si scopre il calciatore giusto

foto da davidefanizza.it
Negli archivi di una nobile società ancora conservano la relazione di un vecchio campione su una mezzala dalle misteriose prospettive. «Calcia di destro, è bravo, a me è piaciuto, prendetelo». Faccio l’osservatore: così sui campi si presentavano gli uomini che firmavano giudizi uguali a questo, l’ombrello in una mano, la penna nell’altra, ed erano spesso in attesa di diventare allenatori, erano giocatori che avevano appena smesso oppure già fuori dal giro, gente che spesso s’accontentava di un biglietto d’ingresso per lo stadio. Un lavoro da limbo, un impiego in cui veder fiorire il sottobosco. Solo ai prescelti capitava il giorno giusto per essere attraversati da un raggio di luce, come s’accorse Waldemar de Brito ai bordi di un giardino in cui un ragazzino faceva gol a piedi scalzi, e lo chiamavano Pelé; oppure come capitò a Francisco Cornejo, impiegato di banca a Buenos Aires, che in un sabato di marzo attraversò il parco Saavedra e restò fulminato dal sinistro di un bambino di otto anni di nome Diego Armando.

Guardare calcio è diventata una professione d’alta specializzazione. Muove milioni di euro. Dinanzi a un nuovo contratto da firmare, i proprietari dei club cominciano a chiedere la tracciatura del percorso, la filiera di occhi sotto i quali è passata la proposta d’acquisto. La scuola classica degli osservatori era composta da uomini convinti che un calciatore andasse visto sette volte: in casa e fuori, contro un’avversaria più forte e una più debole, con il sole e con la pioggia, in un derby per misurarne il temperamento. Non più di sette, perché dopo si finiscono per cogliere solo difetti. Mino Favini ha ottantuno anni, di cui circa quarantacinque trascorsi a individuare piedi buoni. «Sto cercando di smettere» dice, ma nel frattempo «le mie regole non sono cambiate. Parto dal rapporto naturale, quasi selvaggio, che un ragazzo ha con un pallone. Il resto viene dopo, bisogna saper aspettare l’evoluzione del fisico e della mente». È così che ha pescato Gianfranco Matteoli e Pietro Vierchowod per il Como, dov’è tornato dopo un quarto di secolo passato all’Atalanta per scoprire Domenico Morfeo, Riccardo Montolivo, Giacomo Bonaventura e gli ultimi gioielli, o per respingere un ragazzo che pareva indisciplinato, oggi noto come Mario Balotelli. «Ho calcolato di aver fatto in vita mia non meno di tre milioni di chilometri per andare a guardare qualcuno che correva dietro a un pallone».

Una nuova generazione cresce appoggiandosi alla tecnologia, ai database che raccolgono statistiche e videoclip in ogni angolo del mondo: dall’eccellenza italiana di Wyscout ai russi di InStat Football. In una mattina si può analizzare al computer l’intera giornata di quattro campionati. Le piattaforme sono democratiche: il Crotone può arrivare lì dove non arriva la Juventus. Ma le scelte finali vanno fatte dal vivo. Durante un raduno a Valencia, il capo degli osservatori del club argentino Boca Juniors raccontò che ogni anno gli tocca esaminare 24 mila giocatori. Provini, partitelle, raduni. «Come fate» gli domandarono «a individuare chi è davvero bravo tra duemila ragazzi al mese?». Risposta: «Prendiamo quelli che ci emozionano». Ma proprio come accade ai critici musicali e cinematografici, ci si emoziona per quel che si riconosce.

«Più è vasto il bagaglio culturale, più si impara a osservare meglio», dice Marco Zunino, dal 2010 nello staff di Riccardo Bigon, prima al servizio del Napoli, oggi coordinatore dello scouting del Bologna. Zunino insegna storia del calcio attraverso i moduli di gioco al nuovo corso (72 ore) del settore tecnico della Federcalcio per la formazione di osservatori, il prossimo ciclo parte a fine aprile. Un conto è stendere relazioni su calciatori già formati per le strategie di calciomercato, un altro saper misurare le prospettive dei diciottenni, un altro ancora mettersi a caccia di pepite nelle scuole calcio. Oggi le squadre di serie A già conoscono i nomi dei migliori nati nel 2007.

Léonide Moguy si vantava di aver scorto prima di altri le qualità di Ava Gardner e Sophia Loren. Facile così. Vai a capire invece se quel difensore senegalese che gioca in Belgio sarà mai adatto alla serie A. Kalidou Koulibaly lo era, racconta Zunino, «anche se Benítez non lo conosceva quando ci presentammo da lui con un elenco di 65 calciatori, cinque per ogni ruolo, come si usa fare adesso, dopo una base iniziale di 1.700».


Al corso per osservatori si impara a leggere dentro le scuole tecniche dei vari Paesi: il calcio spagnolo che si sviluppa in diagonale, quello olandese che esaspera il pressing, quello tedesco che forma portieri mutuando le tecniche degli sport invernali. Così come bisogna saper riconoscere un difensore dai cinque parametri previsti dal protocollo europeo degli osservatori. «Il gioco aereo in cui eccelleva Gentile, il gioco palla a terra, il senso dell’anticipo, l’esplosività alla Cannavaro e la reazione complessa». La reazione complessa è quella dote che consentiva ad Andrea Pirlo di coprire 13 chilometri a partita senza dare nell’occhio, spesso a passo di jogging, un poco avanti e un poco dietro, l’arte di sapere da dove arriva la palla, dove si fermerà e dove dovrà andare.

Esistono anche le scuole tecniche di chi guarda. «Noi italiani siamo ossessionati dalla abilità in marcatura di un difensore». Gli spagnoli giudicano il palleggio, gli olandesi la capacità di restare con la fronte rivolta alla porta avversaria. «Più conosci» dice Zunino, «più sai leggere la realtà. Siamo come sommelier attenti ai particolari. Un osservatore deve saper distinguere anche doti nascoste. Un calciatore del Barcellona non verticalizza perché è l’allenatore a chiederglielo, ma se avrà un quadricipite ipertrofico custodirà dentro di sé quella capacità». Basta saperlo.

Un operatore dovrà sapere che dal 1890 al 1960 il calcio si è sviluppato intorno a tre moduli e che oggi ne esistono venticinque. Dovrà saper leggere dati antropometrici e collegarli alle aree geografiche. «Per la serie A sarebbero perfetti coreani, giapponesi e uzbeki: resistenti e veloci. Ma non siamo culturalmente pronti» dice Zunino. Non siamo pronti neppure per trovare un posto negli stadi a queste nuove figure. Spesso gli osservatori se ne stanno laterali, così un portiere un tempo lo vedono e l’altro no, meglio allora mescolarsi ai tifosi per ascoltare cosa dicono di questo e quello. Piccoli trucchi: inutile visionare le prime due giornate, inutili le amichevoli, e nel calcio giovanile meglio dare uno sguardo ai genitori, alla loro statura e alle fibre muscolari.

Mauro Sandreani ha lavorato per la Juventus, Conte lo volle in Nazionale dov’è poi rimasto come direttore dell’area scouting. Racconta: «Rispetto alla mia generazione, che sudava otto ore di fila in strada, i ragazzini di oggi nelle scuole calcio giocano meno, ma sono dei fenomeni nell’esercizio visivo. Guardano tante partite in tv e in campo sono già predisposti per finte e dribbling ai miei tempi impensabili. Ripetono quel che vedono fare a Messi. Dei piccoli allora non andrà valutata la prestazione, ma la tecnica, l’intelligenza, il fisico e la personalità. Quella emerge subito. È chiarissimo chi in campo comanda e chi subisce. Maradona a undici anni giocava con quelli di sedici e gli diceva cosa fare. Le doti di un osservatore sono il coraggio di fare delle scelte quando ti assegnano un grosso budget e la passione, la voglia di stare sotto l’acqua e controvento, per tornare a casa felice di aver scoperto un nome che nessuno ancora conosceva. Quando ho iniziato, vedevo i vecchi del mestiere che in cinque minuti sapevano riconoscere un frutto buono. Come cavolo fate, trovai la forza di domandare. Devi sentire il messaggio della pelle, mi rispose uno. La pelle?, chiesi. Sì, quando ti viene la pelle d’oca. Ecco, allora sei davanti a un campione».

(Il Venerdì, 3 marzo 2017)

Nessun commento: