sabato 4 febbraio 2017

Naples '44


Un gigantesco emporio. Un iperbolico postribolo. Un formicaio umano. Questa è Napoli, così appare a un trentacinquenne graduato dell’intelligence inglese, aggregato alla V armata americana dopo l’armistizio. "Napoli odora di legno bruciato" annota all’arrivo il 6 ottobre del 1943 sul suo diario l’ufficiale Norman Lewis. Era stato un nemico, arrivava da liberatore, se ne andrà da complice un anno dopo. Non fa in tempo ad assistere al mito delle 4 Giornate, l’insurrezione popolare contro i tedeschi, perché è ricoverato a Paestum per malaria. Scopre un popolo “ricaduto in condizioni di vita da Medioevo”. Eppure l'uomo non è schizzinoso e neppure ingenuo. Ha sposato la figlia di un giocatore d'azzardo siciliano, sollevandola con un contratto da ogni obbligo di fedeltà coniugale. L'ha salutata a Cuba e s'è arruolato per lo sbarco di Salerno. Ha viaggiato e ancora viaggerà. Diventerà il più bravo di tutti nel cogliere la complessità di Napoli e nel raccontarla.


“Uno dei dieci libri da salvare sulla seconda guerra mondiale” è diventato un film prodotto dalla Dazzle per Rai Cinema, con la regia di Francesco Patierno: materiali d’archivio inseguiti in mezzo mondo e cuciti a brani di film di Rossellini, Rosi, Loy, Cavani, con la lettura in lingua originale di Benedict Cumberbatch: dal 1° febbraio è su Sky Cinema. Il libro è nato trent’anni dopo la guerra, per frustrazione, in seguito a una caduta di Lewis sugli scogli in vacanza a Creta e per la delusione dovuta alla mancata ristampa del precedente The Sicilian Specialist. L’agente gli aveva consigliato di farla finita per un po’ con i romanzi. Così aveva ripreso in mano i vecchi taccuini, tornando tre giorni nella Napoli del primo sindaco comunista Valenzi, e nell’ottobre del ’77 aveva finito la revisione, senza avere un titolo. Lewis a quel punto è “uno degli scrittori più grandi del secolo” per Graham Greene: viene dai reportage a Cuba, Indocina e Amazzonia, dov’è stato il primo a testimoniare il genocidio degli indigeni. Quando il libro esce in Inghilterra il 28 febbraio del ’78, la casa editrice Collins lo impacchetta come se fosse un thriller. In copertina fa disegnare un fucile tra due fiaschi di vino. In realtà il fiasco è uno: 3.206 copie in un anno. L’edizione americana non va meglio. Eppure le critiche sono eccellenti. Il tempo lo renderà un classico.

Naples ’44 giungerà in Italia a mezzo secolo dai fatti raccontati. Ne compra i diritti Adelphi. Il traduttore è Matteo Codignola. Dice: “Un testo attualissimo perché Napoli ha la bellezza e il problema di non cambiare mai. Lewis sfoggiava una capacità tipica dei grandi scrittori inglesi: penetrazione e distacco nello stesso momento. Una volta confessò che il suo ideale era passare inosservato, come un insetto che entra in una stanza e ne esce senza essere visto”. Quella Napoli e quel 1944 erano già stati raccontati dall’americano Burns in “La Galleria” e da Malaparte in “La Pelle”. Burns è il dolore, Malaparte è il sarcasmo, Lewis è la compassione. Degli scugnizzi scrive: “Non ho potuto fare a meno di notare l’intelligenza – quasi il tratto intellettuale – delle loro espressioni”. La Napoli di Lewis è senza acqua, affamata (sono spariti i gatti), piena di gobbi che vendono biglietti della lotteria. I morti esposti nei cortili perché siano salutati dai vicini. La polvere bianca contro il tifo. Massaie che si concedono per cibo in scatola. Signore della borghesia che si sottopongono a iniezioni ricostituenti per essere attive a letto. Un prete che proietta porno per tedeschi. Un ginecologo che ricostruisce la verginità. Coppie che amoreggiano al cimitero. “I napoletani prendono molto sul serio la loro vita sessuale”. Lewis si ferma sempre un passo prima di diventare Marotta. “Le opere su Napoli”, dice Codignola, “oscillano spesso tra il vero e il verosimile, rendendo del tutto vana ogni ricerca del punto in cui comincia l’invenzione. Malaparte giocava ad aggiungere, Lewis a sottrarre”. Lo spettacolo aggiunto di quel ’44 fu il Vesuvio con la sua ultima eruzione. In città c’era pure Togliatti. I giornali dell’epoca furono invitati a tenere la notizia sotto traccia: mai in prima pagina, malgrado 26 morti e paesi distrutti.


Non meno laboriosa è stata la realizzazione del film. I diritti erano stati opzionati più volte in passato. Se ne era interessato pure Stephen Frears, che aveva consigliato il libro a Nick Hornby giudicandolo all’altezza dei migliori saggi di Orwell. Li aveva nel cassetto Francesca Barra, una signora napoletana che vive a Londra. Naples ’44 era un suo sogno, così è stata coinvolta nel progetto dal produttore Davide Azzolini, reduce dal documentario di Jonathan Demme sul musicista Enzo Avitabile. “Avevo conosciuto Patierno al Docu Arts di Berlino: l’idea è nata guardando Napoli-Atalanta in un bar di emigranti. Lewis è stato il migliore nel riprodurre l’immutabile elemento tufaceo della città in modo ricco, con le sfumature, i grigi, le tante tonalità”. Cumberbatch ha registrato tutto in un giorno: Patierno era accanto a lui con la febbre alta. Racconta il regista: “Un giorno a pranzo mio padre mi raccontò di come fosse scampato a un bombardamento perché si trovava dal lato giusto del marciapiede. Se vuoi saperne di più del periodo, mi disse, devi leggere Lewis. Pensai: speriamo che mi piaccia, così ho trovato il mio prossimo film. L’ho divorato in un giorno”. Nel film c’è un Norman Lewis avanti negli anni che torna in città, come accadde davvero per un reportage del Sunday Times. Lo interpreta Carlo Pisani, un uomo incontrato durante i sopralluoghi e reclutato per la sua somiglianza fisica con lo scrittore: in una scena il vero Lewis suda alla Solfatara. “Quando siamo andati nell’Essex”, continua Patierno, “a casa della famiglia di Lewis, ho capito il suo metodo, le libertà che si era preso senza tradire la realtà. Ho avuto i suoi sette taccuini a casa per un mese. Su uno del 1977 c’era scritto: Napoli milionaria. La visione del film tratto da Eduardo lo aveva ispirato. Una notte poco prima delle riprese ho sognato di essere con Warhol in una stanza, poi con Lewis sul divano a chiacchierare, come se stessi chiedendo il permesso per procedere. In casa sua ha degli oggetti che si è portato da Napoli: gouache, disegni, un casco. La seconda moglie, che batté a macchina il romanzo, mi ha confermato che Napoli era la città in cui Lewis sarebbe voluto rinascere”. In fondo è andata così.

(uscito su Il Venerdì, 27 gennaio 2017)

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