NAPOLI. Benso Camillo, conte di Cavour, madrelingua francese, presidente del Consiglio dell’Italia unita; Cialdini Enrico, generale maggiore dell’esercito piemontese che sparò su Pontelandolfo e Casalduni: voi siete i nemici della nazione meridionale, i malevoli avversari del Sud e del suo popolo. Che siano abbattuti i vostri busti e cancellati i nomi dalle strade. Mentre l’America vandalizzava le statue di Colombo e la Catalogna si ribellava a Madrid, nell’estate del passato da riscrivere il Mezzogiorno d’Italia ha scelto per obiettivo il Risorgimento, il «pezzo di storia rimosso», la perduta età dell’oro borbonica. Al Consiglio regionale pugliese il M5S ha promosso una «giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia e i paesi rasi al suolo» per il 13 febbraio, il giorno in cui nel 1861 cadde per ultima Gaeta. Lo stesso documento è apparso in Abruzzo, Molise, Basilicata, Sicilia, Campania; una carezza alla pancia di un orgoglio postumo, quello che Antonio Ghirelli in Storia di Napoli (1973, Einaudi) definiva uno «schermo vittimistico dietro cui si trincera la classe dirigente», eppure in grado di «suscitare una notevole risonanza sentimentale a livello di massa».
È nella capitale dell’antico Regno delle Due Sicilie che bisogna andare per provare a capire cos’è questa febbre così nuova e insieme anacronistica, questo sposalizio tra archivi e populismo, uso della memoria e ricerca del consenso. Il Movimento neoborbonico è nato nel 1993, quando la politica e la classe dirigente del Paese venivano decapitate dalle inchieste su tangenti e corruzione. Salvatore Lanza, il segretario generale, dice che non si tratta di piagnisteo. «L’obiettivo è ricostruire la verità per i figli di tutti i meridionali. Dopo ogni conflitto ci si siede a un tavolo e si discute di risarcimenti, con noi non è successo. Eravamo un regno modello».
Sono 120 gli eventi organizzati quest’anno per la propaganda. Messe in memoria di Ferdinando II, convegni, manifestazioni di piazza. Il reclutamento via web conta su una mailing list di 30 mila persone, 11 milioni i visitatori del sito dal 2007. Più che il movimento, va indagato un sentimento. «Con noi ci sono notai e operai, nobiltà decaduta e ultrà, studenti e intellettuali. Il testo dell’inno su musica di Paisiello ce lo scrisse Riccardo Pazzaglia». Dice: Dio ti salvi cara patria / che ti distendi in questo antico mare d’eroi / millenaria culla del pensiero / che nacque in Grecia / e in questa terra rifiorì. E il nome dei Borbone? Nel testo non compare mai. «Avremmo potuto chiamarci pure neogreci o neoaragonesi». Il neoborbonismo di massa assomiglia perciò più a un vasto contenitore di fierezza, dentro cui arruolare una volta Scalfari che parla a Eco di occupazione del Paese da parte del Piemonte, un’altra Saviano che guerreggia sui social con Gramellini rivendicando l’invenzione del bidet.
In via Belvedere, quartiere Vomero, Luca Sorrentino è il titolare dell’edicola dove una sciarpa del Regno si può comprare a 13 euro. «Non faccio in tempo a ordinarle che mi finiscono». Le ultime le tiene nascoste. «Mi sono spaventato quando ho letto che si tratta di apologia di reato». Le bandiere borboniche furono sequestrate quando i tifosi della squadra di calcio le portarono dentro lo stadio, perché un giorno te la prendi con Cavour e quello dopo con la Juventus. Infatti Lanza sostiene che «oggi un neoborbonico è De Laurentiis, perché nel calcio fa grande Napoli scontrandosi con le proprietà straniere, i cinesi, gli americani, la Fiat, così come il Regno si confrontava con un mondo che andava verso il liberismo sfrenato. Prima Borbone significava retrogrado; grazie alla nostra opera oggi c’è un’azienda di caffè che non si vergogna di chiamarsi così». Un’azienda con stabilimento nel New Jersey e concessionari dal Sudafrica all’Iran. Vasto è il merchandising neoborbonico. Zainetti, portachiavi, monete, magliette, cravatte, pure un finto passaporto da mettersi in tasca per 5 euro. «L’Unità fu fatta da Garibaldi scendendo a patti con la camorra, lo disse Rocco Chinnici. Le nostre industrie sono state mortificate. Pietrarsa, il più grande stabilimento d’Europa, ora è ridotto a museo».
Eccola, Pietrarsa, una striscia di pietra lavica figlia dell’eruzione del Vesuvio del 1631. A sinistra la città di Portici, a destra il rione San Giovanni a Teduccio, e al centro l’ex fabbrica ferroviaria, il vanto dei Borbone. Il binario su cui il 3 ottobre del 1839 viaggiò il famoso treno Napoli-Portici, il primo d’Italia, si vede dalla terrazza. La carrozza reale rossa e verde è conservata nel primo padiglione. Ogni tanto passano i nostalgici e protestano perché il museo viene detto nazionale e non borbonico. Specialmente il 6 agosto, quando si ricordano gli operai uccisi durante il primo sciopero dell’Italia unita (1863). La produttività calava, le commesse cominciavano a fermarsi al Nord. La carica dei bersaglieri fece 7 morti. La piazza a loro dedicata non è distante da un gigantesco murale di Maradona, altro totem della città ribelle.
Oreste Orvitti è il direttore che protegge questo gioiello dall’incuria circostante. «Centomila visitatori all’anno per ora, puntiamo a cinque volte di più». Qui si tengono convegni, sfilate di moda, ricevimenti per matrimoni, congressi. Era il simbolo dello Stato, «con una scuola per fuochisti e macchinisti, mille operai impiegati». D’estate musiche d’epoca e degustazione di prodotti borbonici, per amor di filologia non per altro. La statua di Ferdinando II è davanti al mare. «Sulla coscia», racconta Orvitti, «porta il segno delle fucilate sparate dai garibaldini. Fu abbandonata in magazzino finché un giorno Vittorio Emanuele di Savoia in visita la notò e impose che fosse riportata in pubblico. Disse che non si tiene un re in uno scantinato».
I Borbone e i Savoia, quasi due profili di una stessa faccia, in una città che fra il 1952 e il 1961 elesse alla sua guida Achille Lauro e un partito che si chiamava “monarchico popolare”. Tutto torna allora sul lungomare, scendendo le scalette del circolo nautico che porta il nome dei sovrani in teoria nemici. In teoria. Carlo Campobasso, presidente del Savoia, racconta che «il corpo sociale si divide tra nostalgici dell’una o dell’altra casata, e soci disinteressati. Anche l’arredo le ricorda entrambe, le maniglie delle porte hanno lo stemma sabaudo, all’ingresso due statue equestri di Umberto I e della regina Margherita, al loro fianco una polena di nave borbonica, nel salone due rilievi in bronzo per Maria Teresa d’Asburgo e Ferdinando II di Borbone. Io pure sono diviso in due. Non posso che essere affezionato ai Borbone, unica casa regnante che ha dato lustro alla città, ma da presidente ho riconoscenza verso i Savoia, che ci sostennero dopo la morte di tre canottieri e il naufragio di un’imbarcazione».
Maschio Angioino, ala est, secondo piano. La sede della Società napoletana di storia patria, un patrimonio di 350 mila volumi sul meridionalismo, nata nel 1875 con «l’ideale intento di cementare l’unità morale degli italiani». Da qui Renata De Lorenzo, la storica che presiede l’istituto, osserva e si tormenta. «Per denunziare quello che non funzionò nel processo unitario, non dovevamo certo aspettare i neoborbonici. Il Sud ha sempre seguito una storiografia dell’assenza, ragionando su ciò che gli è mancato. Il fatto che i vincitori dell’epoca siano risultati insoddisfacenti può alimentare certi discorsi, non la nostalgia. Se davvero si trattava di un regno ricco, con sovrani sensibili, strutture invidiabili, allora perché crollò? Alla Germania di oggi non succederebbe. Le famose leggi di Torino contro il Sud furono votate anche da deputati meridionali, in Parlamento, il luogo in cui si impara e si insegna a discutere. Il Regno delle Due Sicilie non ne aveva uno, e non aveva una Costituzione». Marcella Marmo, docente di storia contemporanea, ha esteso gli studi alla rappresentazione del Sud al cinema: «Sono tutti fissati per il ’48-49, per ultimo anche Martone, ma solo una monarchia poteva fare l’Unità. Carlo Alberto impresse una svolta liberale, il re di Napoli no. Nel centenario dell’Unità uscì un volume con i carteggi di Cavour dal titolo La liberazione del Mezzogiorno. Oggi un titolo così sarebbe improponibile». Oggi che il Consiglio comunale di Napoli vota all’unanimità la revoca della cittadinanza a Cialdini, e rischia il suo busto nella sede della Camera di commercio. «Tipica damnatio: abbattere chi è venuto prima, spiegarsi una crisi attribuendola alle origini».
Nel panorama della canzone napoletana tutta ammore e sentimento, Eugenio Bennato è stato l’eccezione cantando le gesta dei briganti. «Nel 1980 mi affidarono la colonna sonora dello sceneggiato L’eredità della priora, dal romanzo di Carlo Alianello. Ero già appassionato di storia sommersa: scrissi un inno dalla parte degli sconfitti. Il paradosso è che i neoborbonici mi odiano perché il testo dice: «Che ce ne fotte d’o rre Borbone». Era un grido anarchico, di rivendicazione per il popolo, non uno schieramento dinastico. L’Italia è stata una grande conquista, il secessionismo è un delirio che lascio a nostalgici e leghisti, ma il recupero e il rispetto delle identità sono sacri, e l’Unità fu compiuta in modo dissennato, nel segno della repressione, con efferatezza, come sempre quando in campo arrivano gli eserciti». Marcella Marmo confessa che contro l’anti-Risorgimento forse si deve combattere su Facebook «ma pure tra i professori di storia nello stadio intermedio della scuola italiana. Il meridionalismo è altro. È la richiesta di una politica che sviluppi il Sud in modo egualitario. I meridionali hanno un grande complesso di inferiorità. Ci piace vivere di una mitologia inventata. Lo capisco, Napoli da ex capitale vive una ferita narcisistica. Ma in fondo siamo più famosi così, più interessanti».
(Il Venerdì, 29 settembre 2017)
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