Chantal era stata «una bambina silenziosa». Racconta al telefono: «Osservavo molto, ero curiosa. Mia madre mi definiva con due parole: “lei legge”. Come a dire che me ne stavo con la testa tra le pagine, persa, era la mia tana. Avevo poche cose, quelle giuste, poche e sudate. Sono cresciuta in modo diverso da come poi avrei tirato su i miei figli. Papà era un impiegato e poiché portavamo questo cognome francese per via di un bisnonno della Lorena, decise che noi figli dovessimo tutti avere un nome straniero. Così io sono Chantal, mia sorella Yvonne, mio fratello Alain».
Chantal aveva sposato Stefano molto presto, lei poco più che una ragazzina di Giussano, lui giovane promessa del calcio, persi uno per l’altro dopo un bacio al caffè a una festa. Sapevano bastarsi. Lo aveva sposato in una chiesa piccola e tenuta nascosta alla folla, un po’ per la fede di lui, credente in Dio ma non solo («credeva nelle cose belle e in quelle giuste, credeva nel bene, credeva nel calcio, nei minuti di recupero pieni di possibilità, credeva nel quotidiano e nell’eterno, credeva nell’amore e credeva in noi») ma pure perché «non si può stare insieme una vita senza l’aiuto di qualcosa di magico». Questa lunga catena di attimi uno accanto all’altra, dagli stadi al respiratore automatico, sono raccontati con potenza rara in Una vita in gioco, scritto con Mapi Danna (Mondadori Electa), in uscita il 19 settembre, a quattro anni dalla morte di Stefano e a nove di distanza da una partita a Firenze, dove l’idolo Borgonovo si mostrò a 27 mila persone sulla sua sedia a rotelle, accanto agli amici Baggio e Maldini, potendo ormai muovere solo gli occhi.
Con gli occhi, strizzandoli, aveva comunicato ai medici il suo consenso a rimanere in vita grazie a una macchina, un sì che fu come un altro matrimonio. Con gli occhi, puntandoli su una tastiera, ha continuato a chiamare con voce sintetica la sua Cha, restando acceso, prima nascosto al mondo e poi esposto, passando «dal vuoto pneumatico al circo», lui e la sua donna («mi sentivo Rambo e Cenerentola»), «due fighi guerrieri», le colonne «di una famiglia anomala, elastica, incasinata, piena di sfumature, nodi e spigoli», con quattro figli costretti a crescere in fretta e la mamma di lui un giorno allontanata perché non reggeva il dolore: «L’ho chiusa fuori di casa. Non le ho mai più permesso di entrare».
Gli stessi occhi dentro cui fino all’ultimo giorno Chantal scrive d’aver trovato desiderio e attrazione fisica: «Il bacio di Stefano è cambiato nel tempo, da luna park a roccaforte, ma è rimasto vivo, intenzionale, anche negli anni della lingua immobile. Usava le pupille, mi baciava più profondamente di prima». Loro che un tempo facevano l’amore due volte al giorno, «continuavo a sperare di piacergli, volevo che mi amasse e non ho mai smesso di restargli fedele. Ero giovane, piacevo, ma nessuno piaceva a me». Neppure Beckham, che un giorno si presenta a casa in tutto il suo splendore, e alla fine fa pensare a Chantal che «Stefano è sempre il più figo».
La storia dei Borgonovo – Stefano e Chantal, Chantal e Stefano – è esplosiva perché non è esemplare. Non sono disegni di Peynet. C’è lui che la molla in strada dopo una sfuriata. «Quando decidevo di essere irritante, precisa, soffocante, ci riuscivo alla meraviglia. Venderei tutto per avere un frammento di quella tensione». C’è la freddezza di lei perché Stefano da Udine non torna a casa per mesi e quando si decide, «non poteva arrivare splendente e pensare di trovare una geisha. Non è delle geishe desiderare, io invece desideravo e lui si era sottratto».
Lei, Chantal, che si mette in viaggio e lo raggiunge perché un amico al telefono le accende in testa una spia, ma non chiede, non domanda, «non perché non fosse importante per me sapere se davvero ci fosse stata o se stava per esserci un’altra donna. Non avrei retto all’immaginazione, alla visione di lui con un’altra». Non ha voluto saperlo, «mi commuove l’idea che una notte, di mille anni fa, forse, abbia fatto lui qualcosa di ingiusto e, se fosse stato, spero che gli sia piaciuto». E ora scrive: «Non venire a dirmelo in sogno». Una vita da nomadi, da calciatori, traslochi, affitti, scuole private per i bambini e non per snobismo, ma perché alle pubbliche non hai fatto la pre-iscrizione quando non sapevi che stavano per venderti. «Le mogli dei giocatori hanno una grande responsabilità. I calciatori professionisti rinunciano alla leggerezza, all’inadeguatezza, al poter essere insicuri, complicati, alla ricerca di se stessi, come sarebbe di diritto per qualsiasi diciottenne».
Questi sono stati Stefano e Chantal, e lo sono ancora. Una Fondazione porta avanti l’impegno contro la Sla, malattia che tra il 2004 e il 2008 ha contato 43 casi tra gli ex giocatori italiani. Per l’abuso di antinfiammatori, si dice, per lo stress, i pesticidi nell'erba. Per questo si leggono parole amare verso la Federazione internazionale (la Fifa). «Non accetto che non mi aiuti, ho incontrato il suo presidente Infantino, mi ha dedicato del tempo, ma con tutti i mezzi economici di cui dispone, il calcio non può non fare chiarezza, fosse anche per escludere un nesso. Eppure il mio nipotino di sette anni gioca a pallone, nella scuola calcio di Stefano, e ce lo mando tranquillamente. Quando c’era Stefano, il calcio era lui. Ora sono informata ma mi fa male guardare una partita».
Chantal confessa che ci sono giorni in cui tra le mani stringe certe vecchie foto. «Il primo anno senza Stefano ho quasi solo dormito, il secondo ho quasi solo mangiato, il terzo non sapevo cosa fare». Il giorno in cui la trachea di Stefano collassò, era a 208 chilometri di distanza. Non si allontanava da mesi. Era andata a Zogli, a sistemare la casa per portarlo in vacanza. «Speravo di accompagnarlo fino all'ultimo, non ci sono riuscita, con il tempo mi sono detta che è stato meglio ricevere una telefonata da mia figlia anziché essere stata costretta a farla io». Scrive Chantal che «le sconfitte ti entrano in casa, come il polline ad aprile: primavera o allergia a seconda dei casi».
(Venerdì di Repubblica, 15 settembre 2017 / con una lettera di Roberto Baggio)
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