lunedì 8 maggio 2017

Le parole di chi ha scalato l'Etna


Che cos'è il Giro dei Giri

"'A Muntagna. Sembra lì per caso, per miracolo, per finta. Come un Everest precipitato in mare, come un K2 emigrato nel Mediterraneo, come un Annapurna sprofondato a sud. 'A Muntagna è l'Etna: divinità prima che vulcano, gigantesca e operosa officina degli dei prima che prepotente e miracolosa basilica della natura, inarrivabile olimpo o paradiso prima che arrivo ciclistico soprannaturale" [1]. "Il puntino rosso, il cratere sulla cima dell'Etna, ci sembra un cero acceso davanti alle nostre speranze. Il mare di raso, il vulcano, la campagna fiorita a perdita d'occhio, scrive un colorista, hanno già vinto. Ma i coloristi sono le modiste del Giro e all'uomo della strada non basta. Il fuoco degli ospiti non cova soltanto sotto la cenere. Divampa imperioso" [2].

"Quale Italia è questa che sale dal mare all'Etna, facendo traguardo del Giro un posto convenzionale sul vulcano a quota 1302, dove c’è un albergo che fu – ’83 – mangiato dalla lava e ricostruito eguale il proprietario ha la videocassetta proiettabile per il “frisson rouge” dei turisti (“frisson rouge” da magma ardente, non confondere col “frisson rouge” turistico degli anni ’70-’70 in Esteuropa, in Cina)? Quale Italia è, con paesini etnei pieni di donne nere e gatti grigi, e ristorantucci presuntuosi che espongono la lista delle carte di credito vigenti al loro interno, tutte e anzi qualcuna di più? Paesini molto etnei, con offerte di escursioni vulcanesche affisse fuori dalle tabaccherie e dei bar, e poco etnici, perché senza identità. (...) Paesini artificiali, il prodotto locale unico sembra essere, oltre all’Etna, il miele, orrendi fantocci di raccoglitori catafratti dentro divise di tela anti-api raccomandano fuori dai negozi il prodotto. Che Italia è? Posticcia, finta, vitalissima, visitatissima, non povera, forse ricca? Sui muri dei paesi, muri neri di blocchi di lava, ancora le scritte di quando il Giro scalò l’Etna, 1967, “Motta, falli morire”: adesso si scriverebbe “Motta facci godere”. Che Italia è? Lava e lava e sulla lava ginestre giallissime e altri fiori rosa di cui nessun etneo lì per lì sa dirci il nome, poi uno dice spinasanta e tutti fanno segno di sì con la testa, aderendo più che sapendo. E in mezzo alla lava la solita strada di finta salita, e scritte inebrianti (“frisson rouge”) per il turista: osservatorio in quota, centro vulcanologico, limite escursionistico; e anche discoteche annunciate da nomi bischeri in caratteri grecizzanti. E’ Italia, ma che Italia è, magmatica come la lava, destinata a scendere giù e connotare tutto, nel probabile monodestino turistico del nostro paese, oppure fissata negli stereotipi locali, e incollata all'Etna perché resti lì, e basta, con le donne nere e i gatti grigi?" [3].

"Il Giro è infettivo. La sua felicità è contagiosa. Tutta l'isola freme, mentre le bougainvillee mostrano sfolgoranti livree, vibrando al lampeggiare di ruote corsare. La Sicilia riabbraccia il Giro. (...) Qui la bici da 115 anni solleva brividi. Da quando i nobili palermitani - Pietro Lanza di Trabia, Francesco Arezzo di Celano, Manfredi Lanza di Mazzarino - l'usavano per esercizi di virtuosismo nell'Ottocento, fino al mondiale di Agrigento, vinto nel 1994 da Leblanc su Chiappucci. Nella Tonnara Florio, alla borgata Marinella a Palermo, c'è ancora il biciclo con cui Vincenzo Florio compiva prodezze sul finire del secolo nel velodromo alla Favorita. Le gomme piene di caucciù sono state mangiate dai topi. Ma lo scheletro è intatto, seducente e superbo. (...) "Vincenzo Florio è stato il profeta della bici in Sicilia. Era affascinato dalla velocità. Aveva fondato una rivista intitolata Rapiditas. Credeva che il miglior veicolo per pubblicizzare la Sicilia fosse lo sport", racconta Silvana Paladino, moglie dell'ultimo dei Florio, che vive in Madagascar. Vincenzo Florio era stato un pioniere straordinario in un'isola percorsa, come un arabesco impossibile, dalla trama della rete stradale borbonica. Con coraggio visionario, sul modello della Coppa Gordon Bennett, concepì una gara per automobili, la Targa Florio: prima edizione a Brescia nel 1905, seconda edizione in Sicilia nel 1906. Il progetto di questa gara mitica, che vide poi le gesta di Varzi e Nuvolari, nacque a Parigi nella redazione de "L'Auto". E, solo dopo aver lanciato l'auto, - sembra un anacronismo - Vincenzo Florio lanciò nell'isola il grande ciclismo. Il Giro, fondato nel 1909, ebbe un antenato importante: il giro di Sicilia, corsa a tappe per pionieri avventurosi. Nella prima edizione del giro di Sicilia, organizzato da "Il Mezzogiorno Sportivo" di Napoli - 30 partenti, 1.100 km in 8 tappe, dal 2 al 13 ottobre 1907, Vincenzo Florio presidente di Giuria - le strade erano così terribili che Carlo Galetti vinse la prima tappa, Palermo-Messina di 270 km, a 19,852 km/h di media: il secondo, Jacobini, giunse con 40' di distacco. Un passista come Ganna si trovò a disagio su quei percorsi nervosi, dove l'abilità prevaleva sulla potenza. (...) Risale a quella corsa l'episodio romanzato di Eberardo Pavesi, che, cadendo, spezzò la forcella della bici vicino a Sciacca: fu soccorso da un uomo a cavallo, armato di fucile, che lo portò in un cascinale sperduto nel latifondo, lo fece rifocillare, sparì per una valle, ritornando dopo qualche ora con la bici riparata, e lo guidò, a cavallo, per scorciatoie in modo da fargli raggiungere Trapani in tempo massimo. Quando, nell'ultima tappa, Galetti fu in vista della Favorita, il suo arrivo fu annunciato con un colpo di cannone e un altro colpo salutò, 40' dopo, il gruppetto degli inseguitori, in cui c'era Ganna".[4].  "Il terzo avvio dallo Sicilia avvenne nel '54. I veicoli della carovana pubblicitaria e dello spettacolo serale, le vetture dell'organizzazione dei servizi e relativo personale si concentrarono a Milano in Piazza del Duomo, per il trasferimento in colonna a Napoli - con soste a Bologna e Pescara - per poi proseguire sia con treni speciali sia per mare. Un carro colorato della casa cinematografica "Metro Goldwin Mayer" trasportava una gabbia argentea con dentro un maestoso leone dalla folta criniera. Il 21 maggio, sul circuito di Monte Pellegrino, si svolse una cronosquadra vinta dalla Bianchi (Coppi, Gismondi, Filippi). Nella Palermo-Taormina di 280 chilometri, riportata dal romagnolo Minardi con 4'27" di vantaggio su Magni, ci fu il dramma di Coppi. Il campionissimo andò in crisi per un piatto di ostriche e arrivò dopo 11'52"[5].
"La Sicilia e' una buona scuola. (...). Respira i pollini degli oleandri e delle ginestre in fiore. La maglia rosa pretende scapole forti. L'hanno portata per l'isola, come una straordinaria foglia di bouganvillea trascinata dal vento, Coppi e Poblet, Merckx e Adorni, Moser e Saronni"[4].
"L'Etna, dice Michele Scarponi, «non è uno di quei luoghi che, visti alla tv o studiati su una mappa, è come se ci fossi già stato». Sospiro. «L'Etna è un luogo antico, come la tartaruga è un animale antico, come l'ulivo è un albero antico». Pausa. «Come Spezialetti è un corridore antico». Risata. Sull'Etna, racconta Scarponi, «non ci ero mai stato fino a quest'anno, ci ho fatto due ritiri con i compagni, allenarsi e mangiare, allenarsi e bere, allenarsi e dormire, insomma allenarsi e poco altro, allenarsi e giocare a carte, allenarsi e leggere i giornali, allenarsi e guardare i film sul computer. Una vita da monaco in bicicletta». L'Etna, spiega Scarponi, «è un posto che ti affascina fino a farti girare la testa, soprattutto se soffri di vertigini o di altitudine. E' boschi, è silenzio, è strada nei boschi e nel silenzio. Poi, improvvisamente, è roccia, cenere, lava. E' tuoni, calore, fuoco. Un giorno mi sono fatto accompagnare in cima. Un' emozione fortissima. Anche paura. Lassù, sai e non sai, non si sa mai». L'Etna, azzarda Scarponi, «non è solo una palestra privilegiata di allenamento, ma è la natura, l'indole, il carattere del corridore. Perché il fuoco è l'agonismo. Una scintilla che diventa un falò e divampa in un incendio. Il fuoco è quello che collega gambe e testa, che accende il motore, che fa aprire il gas». L'Etna, sostiene Scarponi, «non è una salita terribile. E' lunga, è infuocata, è vulcanica. E' più dura di Montevergine, ma si fa in velocità, non provoca selezioni, almeno non fra gli uomini di classifica, e si rischia di arrivare in volata»" [6].
"Quello che di Nibali si nota subito è l'eleganza, che mi ha fatto pensare al cirneco, un cane autoctono spuntato più di duemila anni fa intorno all'Etna. Vincenzo l'hanno ribattezzato lo squalo perché è nato a Messina, peraltro su un mare non molto ricco di squali. Era e resterà lo squalo (le requin, el tiburon, the shark), è un soprannome che fa presa, ed è anche il primo pesce in un bestiario ciclistico che comprende aironi, aquile, falchi, stambecchi, camosci, pulci, condor, tassi" [7].

"Il Giro d' Italia torna all''A Muntagna. (...). Soffocante La prima volta nel 1967: fuga, Franco Bitossi sullo spagnolo Aurelio Gonzales, e Michele Dancelli ancora in maglia rosa. Bitossi: «Un caldo soffocante. Più salivi, meno respiravi. Ricordo un piazzale con gli alberghi. Ci sono tornato quest'anno per una corsa in mountain bike, gli alberghi non c'erano più, sepolti dalla lava. Il traguardo era alla fine della strada, ma l'Etna stava più su. Spento, severo, minaccioso». La seconda volta nel 1989: due scalatori, il portoghese Acacio Da Silva sul colombiano Lucho Herrera, e Da Silva che sequestrò la maglia rosa al velocista olandese Jean-Paul Van Poppel. Maurizio Fondriest, quel giorno dodicesimo a 13" da Da Silva: «Si arrivava in un parcheggio, eravamo stretti fra il calore della gente e il freddo del luogo. E la nebbia nascondeva il cratere». O forse lo custodiva, lo proteggeva. Lunare. La terza volta nel 2011: la nona tappa, il 15 maggio, da Messina all'Etna, 159 km, due volte 'A Muntagna, la prima da nord, da Linguaglossa, fino alla località Lenza, quota 1631, la seconda - e finale - da sud, da Nicolosi, fino al Rifugio Sapienza, quota 1904. Fino a 1400 metri, l'Etna è bosco, parco, selva. È quattro versanti ufficiali più una ragnatela di sentieri artigianali e selvaggi. Poi, improvvisamente e, per quanto già lo si sappia, inaspettatamente, è un monte calvo, una crapa pelata, un paesaggio lunare, un Ventoux acceso. Collasso, eruzione, mare di fuoco, fiumi di lava, e poi terra paralizzata e pietrificata, resti e rovine. Dalla parte di Nicolosi spunta il campanile di una chiesa sepolta dal magma. Giampaolo Caruso, scalatore siciliano capace di trascorrere settimane sull'Etna per temprare il suo fisico da ramarro, dice che «l'Etna incute rispetto, timore, prudenza. Ogni pomeriggio, puntuale, arriva una nuvola che copre la cima. È come se quella non fosse la sua casa, è come se volesse mantenere le distanze: quando al mare si prende il sole e si fa il bagno, lassù c'è un altro clima, di nuvole fredde». E siccome i corridori rimangono avventurieri ed esploratori, Caruso osa salire su una mountain bike e arrampicarsi verso la sommità, fino a quota 3 mila. Resterebbero altri 400 metri di ascesa al cratere, «ma quelli sono sacri, inviolabili, vulcanici». Sarà una tappa vulcanica. Non per le pendenze: ragionevoli. Ma per il palcoscenico: divino e metallurgico".[1].
"L'Etna, vulcano grandioso, che non ha pari in Europa. L'ultimo pensiero è, come sempre, rivolto al Cielo. Caro Giro, sei arrivato sano e gioioso. Anche lassù ti amano".[8].

note
[1] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello Sport, 21 dicembre 2010
[2] Mario Fossati, la Repubblica, 20 maggio 1989
[3] Gian Paolo Ormezzano, la Stampa, 23 maggio 1989
[4] Claudio Gregori, la Gazzetta dello Sport, 14 maggio 1999
[5] Rino Negri, la Gazzetta dello Sport, 14 novembre 1998
[6] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello Sport, 15 maggio 2011
[7] Gianni Mura, la Repubblica, 11 luglio 2014
[8] Candido Cannavò, la Gazzetta dello Sport, 4 giugno 2007

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