venerdì 5 maggio 2017

La Sardegna del Giro d'Italia

Il Giro d'Italia in Sardegna nel 1961
Che cos'è il Giro dei Giri

"L'attesa è finita. Oggi si parte. E il vecchio suiveur lascerà la poltrona e si apposterà lungo la strada. Il Giro è una straordinaria esperienza iniziatica. Perfino il cronista vibra mettendo la faccia al sole, come uno scriba che, lasciato il suo foglio di papiro, s'imbatta nella principessa egiziana Nefertiti. Il sole accende già miraggi. E i campioni sono umbratili e teneri come i purosangue di rango. Nella vigilia mille pensieri deflagrano. Il presentimento e la speranza si contendono i cuori. Il volto del corridore è ancora rotondo. La pelle è morbida e lucida come il velluto di seta: la fatica non l'ha ancora abrasa" [1].
Ventiquattro ore prima della partenza del Giro, i pessimisti tradizionalmente tacciono. E' d' uopo vedere rosa, sosteneva Armando Cougnet, anche perchè le pagine della Gazzetta sono di un rosa antico, delicato, ma non stinto, che non ingiallisce. [16]  
Pronte sono le biciclette lustrate come nobili cavalli alla vigilia del torneo. Il cartellino rosa del numero è fissato al telaio coi sigilli. Il lubrificante le ha abbeverate al punto giusto. I sottili pneumatici lisci e tesi come giovani serpenti. Saldati i bulloni, disposto alla esatta inclinazione il sellino, calcolata al millimetro l’altezza del manubrio. (…) Ci sono tra di voi dei formidabili guerrieri. Quando si parte per una nuova guerra, anche nel cuore più umile possono entrare speranze immense. Non si sa mai. (…) Tutto veramente ricomincia, tutte le carte sono ancora coperte e una illusione ugualmente intensa fluttua senza parzialità sopra i partenti”.[2]

"Dai timidi inizi balneari di Alghero, non si capisce bene che strada si stia per imboccare. Dei due grossi alberghi che vi sono sorti, uno, quello di città, è intonato, sia pure più al futuro che al presente in questa stupenda riviera. Ma non turba il paesaggio, non fa macchia, non dà scandalo. Ed è soltanto questo che si chiede, ai nostri architetti. L’altro, quello dei Pini, che si erge in una delle più stupende baie del mondo, mezzo spiaggia e mezzo scoglio, i fianchi rinserrati fra picchi dolomitici che strapiombano sul mare rossi come ferite aperte e trivellati di grotte dalle acque fosforescenti, quando ci arrivai, mi mozzò il fiato per lo sgomento. Non è un albergo. È un aeroporto. Un frigorifero. Un impianto per esperimenti atomici. A chi diavolo poteva essere saltato in testa un simile mostro? Seppi più tardi che il suo inventore lo aveva copiato pari pari da una rivista americana, sul modello di ciò che si era fatto su un lago alpino del Canadà". [3]
"I corridori devono avere un'anima misteriosa come i cavalli di razza che sentono l'ora del Gran Premio prima che arrivi dalle vibrazioni del vento, dal migliorato sapore delle biade. Sono superstiziosi e irrequieti o indifferenti, presaghi. Noi li osserviamo ogni mattina quando s'adunano per la partenza e tentiamo con una curiosità quasi inaudita la loro diagnosi umana. È un tentativo che dura da anni ormai, da quando siamo alle corse e mai siamo giunti, credete, ai loro stati profondi; aggiungiamo qualche sfumatura al ritratto, nulla di più. Sono personaggi strani i corridori, carichi di miseria e di poesia e il Giro è il loro immenso teatro, la loro opera umana, una poesia di versi strani". [4] "Una corsa di 25 giorni è scarsamente decifrabile, in partenza. Questo è il Giro, dicono gli organizzatori, che la gente voleva, che la gente chiedeva. Un Giro più duro, con più montagne"[5].

"Son cresciuto in Sardegna senza nulla sapere delle sue spiagge e scogliere, esattamente come i sardi, che gli hanno sempre voltato le spalle con rancore perché dal mare non sono mai venuti loro che guai: le invasioni, le incursioni dei pirati e la malaria. I sardi non amano il mare. Pochi di loro fanno i pescatori e quei pochi son di origine catalana o genovese. Quasi nessuno ne sente il richiamo. E io ho condiviso per tutta la mia infanzia questa irriducibile diffidenza, e sono arrivato alla mia età senza sospettare che in Sardegna si potesse venire per altre ragioni di diporto che quella di battere la sua terra sassosa e bruciata, le sue macchie di mirto e di rosmarino dietro le pernici e le lepri".[1]
"O sardi, io scruto le vostre facce antiche e non capisco nulla o quasi di voi. La cosa più vera che posso garantire sul vostro etnos è che al museo esiste una tessera d’avorio, sottile, piccolina, molto comoda a portarsi, d’un buon borghese punico abbonato alla stagione teatrale. I punici hanno dominato il Mediterraneo e sono “passati” quando ha preso a sfruculiarli Roma per decine di anni. (…) Etnologia, mistero senza fine bello. Dal parrucchiere, uno studente persiano mi ha rivelato di aver riconosciuto nenie popolari del suo paese in questo piccolo e misterioso continente che è la Sardegna"[6].
"Attenzione, voi sardi, a non imitare noi continentali nello sfregio di ciò che l’Onnipotente vi ha dato. Attenzione a non fare della riviera algherese quello che i romani hanno fatto di Ostia e di Fregene, o quello che i toscani hanno fatto di Porto Santo Stefano: cioè quelle orrende fungaie che documentano tutta la pacchianeria, tutta la pretenziosità, tutta la mancanza di idee e di gusto, tutto l’inveterato odio per la natura, che animano questo popolo di santi, di eroi, di navigatori eccetera"[1].
"La Sardegna non ha grande tradizione nel ciclismo: solo sette corridori, prima di Aru, hanno partecipato al Giro. I pionieri furono Domenico Uccheddu (indipendente nel 1930 e 1931) e Antonio Laconi negli Anni 30. Giovanni Garau lo portò a termine nel 1961 (66°) e si ritirò nel 1963. Antonio Manca corse il Giro con la Molteni nel 1964. Si ritirarono anche Giuseppe Bratzu (1969) e Emiliano Murtas (1997). Il velocista cagliaritano Alberto Loddo ne ha corsi quattro (2004, 2006, 2008 e 2010), abbandonando sempre, però 3° nella quarta tappa del 2006. Ma Fabio non è il primo Aru a pedali: quello è Ignazio, che conquistò la maglia rossoblù di leader nel Giro di Sardegna 1960 alla fine della terza tappa" [7].

"Girovagando, quante cose si vedono. Metti, la Costa Smeralda. Poi uno dice che non torna più a Gatteo Mare. Il vostro girovago sta per mettersi in viaggio verso Sassari. Occorre davvero un animo vagabondo per lasciare questo mare" [8].
"La Sardegna è compatta e radicalmente diversa dalle altre regioni italiane. E’ simile alle correnti che non si diluiscono nell’acqua che le circonda. Questa diversità si converte in visione per chi percorre tutta l’isola. Chi giunge qui s’accorge subito di trovarsi di fronte a una terra mai veduta. Nuove queste montagne, che sembrano a vederle favolosamente alte, e a misurarle sono basse, avvolte di un riverbero strano, abbagliante. Seminate di giganteschi massi, cui l’erosione ha dato profili di mostri, in quella luce d’irrealtà potrebbero essere montagne viste in un sogno, che non si ritrovano più svegliandosi un minuto dopo. Lo strano è proprio che un paese di roccia, anziché dare il senso della realtà, ci sembra fatto col tessuto impalpabile delle immaginazioni”. [9].
”Tutti i nuraghi che ho visto, per me non hanno interesse interno. Piuttosto presenze misteriose, nella campagna, ho sentito il loro fascino e l’ho subìto alle loro coniche apparizioni di pietra sopra pietra; e non più del fascino disumano di certe croci che ho visto sulla strada di Nuoro – immense -: patiboli anzi che segni di Dio; o di certi piccoli cimiteri recinti da siepi di fichidindia in fiore, d’una fioritura vermiglia” [10].
”Dentro al nuraghe c’è ombra e silenzio, e, naturalmente, senza intervento dell’immaginazione o sforzo della ragione o della fantasia, il senso fisico di essere in un altrove, in una regione ignota, prima dell’infanzia, piena di animali e di selvatica grandezza. Ben protetti da queste mura gigantesche, se ne sentono tuttavia gli indeterminati terrori, e il senso della arcaica crudeltà di quegli uomini arcaici, asserragliati nelle torri, in una natura crudele. La misura stessa delle pietre, quei venti conci aggettanti che chiudono il cerchio del muro è lontana dalle nostre misure, e gigantesca. E la forma dell’apertura, che non è una porta, né il vano di un ingresso, ma una stretta fessura a un metro dal suolo, che costringe ad entrare strisciando orizzontali, dà l’impressione che in quegli strani edifici, sparsi per i monti di Sardegna a testimoniare la sua più antica civiltà, non si potesse entrare o uscire che morti[11].
"Alle 14, poi, in Sardegna la temperatura è come quella estiva sul Continente. Comunque valeva la pena senz’altro di venire sin qui. L’entusiasmo dei sardi ripaga anche di qualche disagio che tra l’altro non è eccessivo" [12].

"Il percorso solleva già echi eleganti. Ci sono straordinari legami con la storia. Qui si abbeverò l'ammiraglio Horazio Nelson prima della gloriosa e fatale battaglia di Trafalgar. Qui, da Becco di Vela, nel 1901, l'antenna di Marconi mandò il segnale all'Argentario e a Livorno. Qui, a Villa Weber, il Duce, arrestato il 25 luglio 1943, rimase per venti giorni. Qui c'è, soprattutto, il tempio di Garibaldi. Ma che legame c'è tra Garibaldi e il Giro? «Semplice. Il Giro unisce l'Italia. Fa in sostanza, centocinquanta anni dopo, quello che ha fatto mio bisnonno», risponde Giuseppe Garibaldi jr. Aggiunge: «Quando Garibaldi morì, la bici non era ancora giunta qui. Altrimenti l'avrebbe usata. Ne sono certo per quattro motivi. Il primo è che mio bisnonno era molto attento alle novità tecniche: basti dire che fece fotografare tutti i Mille. Il secondo è che era affascinato dalle macchine: nel 1854 acquistò a Treviso dai fratelli Giacomelli la locomobile, una macchina a vapore per mettere in funzione la trebbiatrice, le pale dei mulini e per attingere acqua dai pozzi. Il terzo è che era uno sportivo: era, ad esempio, un grande nuotatore. Infine amava la natura. La bici lo avrebbe conquistato». I ciclisti di oggi sono gli eredi dei cavalieri dell' Ottocento. Come Garibaldi amano l'avventura. Qui la troveranno. La tappa è di una bellezza mozzafiato"[13].
”Su questi altopiani tagliati netti nel cielo come piattaforme, i protosardi, i piccoli e ostinati guerrieri dei nuraghi, costruirono le proprie fortezze e i propri villaggi circolari, così incisi e forti da dare ancora oggi il brivido della vita che li animò. Sembrano fatti con giudiziosa fermezza e insieme con la precisa pazienza degli insetti. Grossolani come fornaci di calce a prima vista, imprevedibili per altezza e monumentalità, si rivelano poi calcolati sulla stessa misura degli abitatori che vi si trovarono, portando le feritoie all’altezza delle braccia, stringendo e adeguando le muraglie alla penetrante sottigliezza del proprio passaggio. Chi è stato in un nuraghe, chi c’è stato davvero, dall’alto e dal basso riunendo nell’impressione l’immagine infinitamente grande e infinitamente piccola di quelle architetture secche, non potrà più dimenticare un senso di sgomento fisico e di tetra dignità che tocca il cuore. Siamo riportati alle origini, alla nascita degli umani accorgimenti, alla rivelazione di gesti che si ripetono, si provano, si associano per dar forma e luogo al lavoro e alla vita”[14]
Non so più nemmeno se il mio sia amore oppure fastidio, rabbia di essere nato là, di essere legato, di rimanere legato per tutta la vita a una terra tanto vecchia e tanto lontana dal mondo nel quale vivo. Eppure quella è la mia piccola patria. Là sono diventato uomo, là è la mia gente: case e tombe. Ma ciò che conta di più è che io, anche ora, se vado là, mi sento più forte, più intelligente, anzi onnisciente. Se immergo la mano nell’acqua della Spendula, o del Rio Manno, so di che cosa è fatta quell’acqua. (…) Là mi sono sentito al centro dell’universo come un astronauta. È per questo che sono geloso della mia terra, della mia Isola, e odio tutto ciò che può renderla volgare”. [15]

note
[1] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 16 maggio 1998
[2] Dino Buzzati, Corriere della sera, 21 maggio 1949
[3] Indro Montanelli, Corriere della Sera, 12 agosto 1958
[4] Bruno Raschi, la Gazzetta dello sport, 2 giugno 1960
[5] Gianni Mura, la Repubblica, 13 maggio 1982
[6] Gianni Brera, Il Principe della Zolla, il Saggiatore
[7] Marco Pastonesi, Gazzetta dello Sport, 23 maggio 2015
[8] Vittorio Monti, Corriere della sera, 27 maggio 1991
[9]  Guido Piovene, Questa nostra Italia, programma tv da "Viaggio in Italia", 1953-1956
[10] Elio Vittorini, Sardegna come un'infanzia, 1936
[11] Carlo Levi, Tutto il miele è finito, Einaudi, 1964
[12] Mario Oriani, Corriere d'Informazione, 23-24 maggio 1961
[13] Claudio Gregori, 4 dicembre 2006
[14] Alfonso Gatto, Diario Sardo, 1955
[15] Giuseppe Dessì
[16] Mario Fossati, la Repubblica, 20 maggio 1989

leggi anche
Tutte le tappe del Giro dei Giri

Nessun commento: