sabato 21 gennaio 2017

Quel napoletano di Shakespeare

Luigi Credendino nello spettacolo Mal'essere di Davide Iodice

NAPOLI. To be or not to be. O si’ o nun si’. O sei o non sei, si tormenta Amleto, non più in inglese ma nella sua seconda lingua. “That is ’a questiòne”, con l’accento sulla lettera “o” e la schwa finale “si è cchiù nobbile pe’ ’sta capa o mind / suppurta’ ’e ppetriate o ’e frezze ’e ’sta ciorta / ca parla tuosto or to take ll’arme. Trip muri’ o sleep durmi’”. Qui Napoli, casa Shakespeare. A metà strada fra il rione Sanità e la zona di Forcella, durante le prove nella mansarda del teatro San Ferdinando, il principe di Danimarca parla nel dialetto che incantava Wagner, anche se i tempi di Era de maggio sono lontani perché “il napoletano si trasforma, il rap tronca le sillabe e offre una nuova ipotesi di lingua”. Così dice Sha One, uno dei nomi dell’hip hop cittadino che hanno riscritto Amleto nella loro grammatica. Gli altri sono i Fuossera, Joel, Op Rot e Capatosta, interpreti di una scuola esplosa nella scia dei 99 Posse. Vengono da Piscinola, Marianella, Secondigliano, una porzione di terra spesso sintetizzata sotto il tag Gomorra, e firmano con il regista Davide Iodice l’atteso Mal’essere, debutto il 1° febbraio, produzione del teatro Stabile di Napoli – teatro Nazionale. “Questo Amleto non risponde a un’esigenza di localismo. Non avrei potuto metterlo in scena in italiano”, spiega Iodice, “perché è una lingua con una carenza di visceralità. Il napoletano è invece lingua-corpo, e la cadenza del rap in dialetto è la cosa più vicina oggi al blank verse della poesia classica d’Inghilterra”.
   
   Eccolo di nuovo, Shakespeare il napoletano. Non esiste in Italia un’altra città che lo abbia trattato come un autore di famiglia. Era il 1983 quando Einaudi incontrò Eduardo per proporgli una versione di Sogno di una notte di mezza estate nella collana “Scrittori tradotti da scrittori”.  Si accordarono per La Tempesta, dramma o fiaba degli incantesimi, considerata uno dei luoghi di nascita della modernità. Nonostante vent’anni di convivenza con Dorothy Pennington, ragazza di Philadelphia conosciuta a Roma, Eduardo non parlava inglese. Franco Zeffirelli era stato il mediatore culturale quando negli anni ’70 le sue commedie erano state recitate a Londra da Laurence Olivier e Joan Plowright. Fu la terza moglie Isabella Quarantotti a tradurgli il testo. Lei lavorava sul senso letterale, Eduardo aggiungeva una superficie poetica in napoletano antico. “Io sono convinto che Shakespeare l’ha scritta conoscendo Napoli” confessò ad Antonio Ghirelli. Non si spingeva a inventare viaggi inesistenti. Eduardo avanzava l’ipotesi che Shakespeare avesse letto favole napoletane, genere a cui all’epoca si dedicavano abati e monsignori. Aveva messo le mani sulla copia di una di queste raccolte e diceva di aver sentito fra le pagine echi della voce di Shakespeare. Con Ghirelli si raccomandò: “Sul giornale parlane con delicatezza, ti raccomando”. Pensata come spettacolo di marionette, quella Tempesta fu portata alla Biennale di Venezia due anni dopo dalla compagnia della famiglia Colla. Eduardo non c’era più. Aveva lasciato un nastro con la sua voce, capace di interpretare tutti i personaggi in sfumature diverse, Ariel uno scugnizzo dei vicoli e Calibano “’nu selvaggio fesso”.

   Una decina d’anni prima Leo De Berardinis aveva iniziato con King Lacreme Lear Napulitane le sue triangolazioni tra Eduardo, Totò e Shakespeare: recupero, riuso, citazione, degradazione. Incroci e contagi sono diventati più numerosi e più naturali. La regia di Giancarlo Sepe stemperò Petito e Scarpetta nella Bisbetica domata, trasformando Petruccio in un commerciante napoletano in aperto dualismo con il nord: Carlo Giuffré accettò il ruolo perché era preso dal progetto di un Re Lear in napoletano. Gianni Lamagna, ricercatore vicino a Roberto De Simone e alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, ha inciso in dialetto diciassette sonetti. Trenta sono quelli tradotti da Dario Iacobelli (edizione Ad est dell’equatore, 2016): “Tir’d with all these, from these would I be gone / Save that, to die, I leave my love alone” è diventato “Nun c’a faccio cchiù, vulesse i’ luntano, vulesse muri’ ma l’ammore mio ’o lassasse sulo, e sulo pe’ chesto nun me ne pozzo i’”. Tre anni fa Hamlet Travestie di Vastarella e Valenti portò la tragedia danese in casa della famiglia Barilotto, disposta a una quotidiana messinscena per non turbare un figlio che si crede il principe. Mentre nel 2007 Per Amleto di Michelangelo Dalisi dava a due becchini la consapevolezza di essere stati in un’altra vita Ignazio e Petronio. Secondo Dalisi “l’opera di Shakespeare e la tradizione artistica napoletana condividono le contraddizioni, la povertà, la comicità, la brutalità. In una parola sola: la complessità”.
  
   In un saggio pubblicato sulla rivista “La Critica” nel 1919, Benedetto Croce rigettava certe suggestioni giunte dalla Germania, dove accostavano le meditazioni di Amleto alla filosofia di Giordano Bruno, ma tentava di tracciare una mappa della napoletanità di Shakespeare: dalla presenza di re Renato nell’Enrico VI, al principe cittadino che aspira alla mano di Porzia nel Mercante di Venezia. Fino all’ambientazione della Tempesta e alla coppia Trinculo e Stefano, nella quale Croce sin dai nomi identificava tracce della commedia dell’arte cittadina. “Ai suoi tempi”, spiega Stefano Manferlotti, docente di letteratura inglese alla Federico II e autore di “Shakespeare” (Salerno editore, 2010), “come si deduce dall’Otello e da Troilo e Cressida, Napoli non godeva di buona fama. Con il suo nome veniva definita la sifilide. La città esercitava una sorta di attrazione e repulsione. Le compagnie si spostavano in Europa spinte dalla peste e dalle persecuzioni religiose. Sono certo che Shakespeare abbia conosciuto opere napoletane. Del resto, anche ne La fiera di San Bartolomeo di Ben Jonson appare Pulcinella in una scena di burattini”.
   Da oltre vent’anni va in scena Shakespea Re di Napoli, l’opera in cui Ruggero Cappuccio impasta le rime del drammaturgo inglese alle suggestioni liriche del barocco napoletano, evocando l’eredità di Basile, che per Calvino era “un deforme Shakespeare napoletano”. Spiega Cappuccio: “In molte metafore di Basile tornano immagini vicine a quelle di Shakespeare. Parliamo di due magnifici artefici in grado di far coesistere un mondo aeriforme con uno corporeo, viscerale, passando in due versi dal divino all’infimo. Shakespeare vagheggiava Napoli: in comune con la sua tradizione artistica ha l’imprevedibilità, la convivenza tra alto e basso, popolare e nobile, lirismo e trivialità. È pieno di doppi sensi come nella sceneggiata e nelle farse di Pulcinella. Perciò in italiano la sua opera sembra accademica, sconta il limite di una lingua non eversiva, che non rende giustizia alle allusioni. Il napoletano invece è fluido, rende possibile ogni cosa: endecasillabi e settenari sono presenti nella parlata di ogni giorno. Napoli non concepisce la vita senza suono. Se la Sicilia ha avuto Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Pirandello e Brancati, Napoli ha dovuto aspettare La Capria prima di trovare un grande scrittore. Aveva compositori di sinfonie, madrigali e opere buffe. Aveva Petito, Viviani, Scarpetta, Eduardo: una storia di parole pronunciate. Il seme del suono ha sempre rubato la scena”.

Mentre al cinema usciva La stoffa dei sogni, film con cui Cabiddu cuce La tempesta e L’arte della commedia di De Filippo, Davide Iodice s’immergeva nelle prove del suo Amleto, proprio nel teatro che fu di proprietà di Eduardo: un Globe napoletano. Una decina d’anni fa Iodice aveva calato l’opera di Ariel e Calibano nei canoni della sceneggiata (Dormi gallina, dormi): musiche di Nino D’Angelo. Oggi dice che con Mal’essere “si può provare a dire qualcosa su Napoli scartando dall’imperante e cinica oleografia criminale, da questo tempo di paranze dei bambini, da un’estetica del male che stiamo assecondando”. Le sue sono paranze vitali. Le crew dei rapper “che hanno scelto l’arte al posto delle pistole”. La scenografia è un pezzo di periferia, uno sterrato, un totem pubblicitario su cui scorre la scritta “Ofelia vive”, come quelle analoghe che in città ricordano i martiri innocenti di camorra. “Ma Ofelia non risorge, come non risorge Annalisa Durante, né tutte le vittime per cui facciamo volare in cielo i nostri palloncini bianchi. Rimane vivo solo il malessere di una generazione a cui dare altri strumenti di riscatto. L’arte, per esempio”. 

(uscito sul Venerdì di Repubblica il 13 gennaio 2017)
il link sul sito del Venerdì >>> qui

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