Prima di battere stasera la palla al centro, vale la pena ricordare a noi stessi chi siamo e cos'è oggi il nostro calcio, per provare a separare il grano dal loglio. Siamo arrivati a questa partita in compagnia dell'idea che tutto il movimento sia malato di mediocrità. Non è vero. Negli ultimi tre anni la Juventus è arrivata due volte in finale di Champions - le inglesi non la giocano dal 2012 - con la stessa difesa di questa Nazionale. Nelle Coppe europee l'Italia ha appena scavalcato la Germania, ora è terza, con due squadre fra le prime 15, la Juventus quinta e il Napoli tredicesimo. Sulla qualità di gioco del Napoli cascano complimenti da mezzo mondo; vero è che si tratta di una squadra per nove undicesimi fatta da stranieri, ma il meccanismo è merito di un toscano venuto dal nulla e oggi considerato un innovatore. Sarri non è un frutto nel deserto. Negli ultimi dieci anni tutti i principali campionati europei sono stati vinti almeno una volta da un allenatore italiano. È un settore in cui, come nella moda e nel cibo, questo paese tuttora vanta maestri eccellenti. Pure fra i 30 candidati al prossimo Pallone d'oro ci sono due italiani – Bonucci e Buffon – due come gli argentini, come i tedeschi, uno in più degli inglesi. Sembra davvero il ritratto di una pianta sterile?
Ma se tutto questo potenziale in Nazionale diventa polvere, se Immobile e Belotti si mangiano spazi e palloni, se Insigne fa il mediano (quando gioca) e Verratti tocca meno palloni di Chiellini; se tutti danno qualcosa in meno che nei club, allora Ventura deve porsi delle domande, e noi porcele su Ventura, al quale peraltro sono stati dati i superpoteri, gli stage, quei giovani che Conte non aveva e un contratto rinnovato prima di qualificarsi per i Mondiali. Verrebbe quasi da chiedere a Tavecchio di immaginare sin da stasera un sostituto di Ventura, se non fosse più urgente per il calcio italiano cercare prima un sostituto di Tavecchio.
I giocatori restano la parte migliore del calcio italiano. I troppi stranieri sono un alibi, erano il 33% già nell'anno del Mondiale 2006. Non tolgono spazio ai bravi italiani ma a chi in Nazionale non arriverebbe comunque. Se siamo a 90' dal baratro non è per gli stranieri che giocano, ma per quelli comprati e venduti col solo scopo di aggiustare i bilanci per benino. La zavorra del calcio italiano è questa, un abisso morale che la federazione non affronta.
È l'inadeguatezza manageriale a soffocare il resto, togliendo fiato allo sviluppo di un sistema e alla sua modernità. Una società complessa ha prodotto scenari complessi anche nel calcio. L'Italia ne ha affidato la gestione a un gruppo di potere preoccupato prima di tutto di proteggere se stesso. Tavecchio è la matrioska finale che contiene le altre, compreso quel Lotito che ogni tanto tutti scoprono impresentabile, e dal quale poi tutti corrono a stringere patti, facendo mercanzia di voti se c'è una poltrona su cui sedersi. L'elezione di Tavecchio nel 2014 fu una specie di provocazione dadaista, la sua rielezione a marzo una patologia, con il sostegno di chi un tempo lo avversava - Ulivieri, Agnelli, gli arbitri - e le congratulazioni del ministro Lotti. Era un pulcino, oggi è un pavone.
Ha definito l'eventuale eliminazione una Apocalisse, per poi allontanarla subito da sé. Ha evocato il giudizio universale e si è auto-assolto in partenza: non si dimetterebbe. Apocalisse, allora, per chi? Il movimento calcistico ha spostato il baricentro sulla vita dei club. Sopravviverebbe. L'opinione pubblica è volubile, un anno fa voleva spolparsi Zaza e stasera lo avrebbe rivoluto in campo. Fra una settimana, come ha scritto Gianni Mura, ci sono il derby di Roma e Napoli-Milan: il dolore passerebbe in fretta. Mentre i veri amanti del calcio aspetterebbero il Mondiale comunque con passione, perché lo sport parla il linguaggio universale della bellezza, quello che ci spinge a guardare la finale di Wimbledon anche se non c'è Fognini, e i 100 metri di Bolt, e i canestri di LeBron.
Tavecchio rivendica un posto sull'arca di Noè teorizzando la separazione tra i risultati del campo e i suoi atti da dirigente, come se non ci fossero macchie a sufficienza pure lì. Le riforme dei campionati promesse e tradite. Il nome della Nazionale legato a uno sponsor di scommesse. Lo spettacolo di squadre che non hanno i mezzi per sostenere i campionati in cui giocano. Club che falliscono senza che evidentemente qualcuno avesse verificato in anticipo la loro solidità. Battiamola allora questa palla al centro, magari qualcuno stasera riesce pure a metterla in porta e ai Mondiali l'Italia ci va lo stesso, con le bandiere, i caroselli e i contratti pubblicitari, per la gioia generalista del popolo e degli intellettuali. Ma che poi arrivi lo stesso l'Apocalisse, che venga comunque la fine di questo mondo.
(la Repubblica, 13 novembre 2017)
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