venerdì 24 novembre 2017

Massimo Ranieri, un Riccardo III di borgata

Il sovrano che un tempo avrebbe scambiato il suo regno per un cavallo adesso trama per la reggenza dei malaffari di famiglia in polvere bianca. Vive in un castello degradato alle porte di Roma, la borgata del Tiburtino III come terzo è lui, il re Riccardo, tra le pagine del dramma di Shakespeare. Nella reinterpretazione che Roberta Torre porta al cinema il 30 novembre, e in anteprima il 27 al Torino Film Festival fuori concorso, Riccardo di cognome fa Mancini e torna a casa a cospirare nell’ombra contro i suoi, contro il suo sangue e i fantasmi della sua infanzia, dopo anni di reclusione in un manicomio. Complotta cantando su note e parole di Mauro Pagani, perché Riccardo va all’inferno è un musical dark e allucinato, pop e letterario insieme, un film difforme, che non appartiene a nulla – filoni, modelli, tradizioni – se non all’identità estetica di Roberta Torre e a una sua ambiziosa evoluzione dai tempi di Tano da morire e Sud Side Stori.

Ma questo Riccardo III non sarebbe quel che è senza una interpretazione monumentale di Massimo Ranieri, che a 66 anni non s’è ancora stancato di esplorare zone in cui non era mai stato prima, di tradire la facile rendita di Rose Rosse e Perdere l’amore perché, come dice seduto nel suo studio, fra dischi e locandine alle pareti, «non sono mai stato solo quella persona lì, dentro di me c’è stato ogni giorno anche un altro Giovanni Calone, io faccio l’attore e l’attore è un ipocrita. Io mi sento ancora alla ricerca di una sfumatura che non avevo mai colto finora, nell’angolo più buio e sperduto di me, altrimenti non farei questo mestiere, e dico mestiere di proposito, non professione né lavoro. Fare l’attore non può essere un impiego. Forse questo ruolo spiazzerà il mio pubblico tradizionale, pazienza, di certo mi porterà a un pubblico nuovo».

Ranieri era già stato Riccardo III a teatro poco tempo fa. C’era arrivato secondo la strada che meglio conosce da quando, ragazzino, serviva i caffè nel bar di famiglia: per sete di conoscenza. «Sono stato amico di un professore di filosofia siciliano, Fiorenzo De Santis, per anni mi ha parlato del re e del personaggio. Devi farlo, mi diceva, ce l’hai dentro, è un ruolo per te, hai la sua faccia. Mi sono portato questo tarlo dentro per decenni, ogni tanto andavo a leggermi Shakespeare, finché Masolino D’Amico mi ha proposto di lavorare a un adattamento. Facciamo Amleto, gli proposi, lui obiettò che quello è un principe, io sono un proletario. Così mi tornarono in mente Riccardo, le parole del professore, un ruolo in cui la chiave autentica non è il censo ma la malinconia, la devastazione interiore, il rapporto lacerante con la madre a cui in fondo sempre noi tutti torniamo, sempre, specialmente noi che nasciamo al sud. A teatro il mio Riccardo era una sorta di figura quasi andreottiana, da anni 50, mentre nel film Roberta Torre voleva un re egocentrico che ambisce a piacere a tutti, uomini e donne, anche sessualmente, un Riccardo III che fosse insieme Arlecchino e Pulcinella».

Così Massimo Ranieri si è spogliato di tutto il “ranierismo”. Canta con una voce che nessuno gli aveva sentito tirare fuori mai. Non la dispiega, la rattrappisce. «Mauro Pagani mi mandò i pezzi scritti per il film, lo chiamai e gli dissi che secondo me non potevo cantarli con la stessa voce che il pubblico conosce. Lui mi rispose: infatti non devi. Pensava a una interpretazione alla Tom Waits. Così abbiamo trovato insieme questa strada che a me pare bellissima, il pubblico non se l’aspetta, davvero non avevo mai cantato così, eppure adesso sento che questo stile ce l’avevo sotto pelle, era lì, dovevo solo tirarlo fuori». Siccome non bastava, Ranieri ha pure tagliato tutti i capelli, aggiungendo alla sua faccia pasoliniana di zigomi e bugni un’aria nuova, paranoica. Questo suo secondo Riccardo III balla il tip tap con una gamba offesa, resta dentro l’icona della deformità, come pieno di deformi è il suo clan, fatto di servi sputacchianti e corpi estremi. «Ho proposto io a Roberta Torre di essere rapato a zero. Le è piaciuto, l’abbiamo fatto. Sono rimasto per tre mesi a cranio nudo. Lo shock più forte della mia vita. Ho cominciato la carriera da attore con un brillante che era il Metello di Bolognini, ne ho aggiunto un altro grande che è stato l’incontro con Patroni Griffi, e poi una collana di perle fatta di incontri con Strehler, Lelouch, Scaparro, Maselli, Lizzani. Un rosario a cui aggiungo questo ruolo».

Dietro il suo Riccardo ci sono quelli degli altri. «Li ho visti e studiati quasi tutti. Il mio preferito è Al Pacino. Una interpretazione clamorosa che ha lasciato il segno. Mi è dispiaciuto non aver visto invece Kevin Spacey. Era in scena a Napoli mentre io portavo in giro L’opera da tre soldi, non sono riuscito a incrociarlo. Di Shakespeare amo le tragedie più delle commedie. Scaparro mi disse che se avesse dovuto scegliere un solo testo per me, mi avrebbe fatto interpretare un tragico greco, perché come in tutti i napoletani è quella la corda prevalente. Certo, siamo anche allegri. Ma dopo. Perciò fatico ad accostare Shakespeare a Eduardo, come invece sento che molti fanno. Ho sempre sentito Eduardo più vicino a Cechov. Sabato domenica e lunedì per me è Cechov purissimo. È come una costola del Giardino dei ciliegi. Spero di non passare per un bestemmiatore, ma per me quello è un testo superiore a Filumena Marturano. Un testo gigantesco, come Questi fantasmi, terribile, pieno di personaggi opportunisti. Recitare la parte del cattivo è sempre più stimolante. Ti obbliga a guardare dentro la parte più nascosta. Portare in scena Riccardo III è come andare in analisi. Un uomo con una gigantesca lacerazione interna che cerca e sposa bambine. Finché fai il bello, il buono, il romantico, nessuno ti chiede di scavare. Riccardo III ti costringe a fare i conti con un io nascosto, una parte dell’uomo che non vuoi conoscere. Ma non è un personaggio peggiore di sua madre e sua sorella. Un tempo i cattivi governanti venivano ghigliottinati, oggi sono rimossi e vengono destinati ad altri incarichi, si dice così, e spesso sono pure prestigiosi».

Il linguaggio scelto da Roberta Torre per i personaggi del film è un impasto di citazioni letterarie e quotidianità, maleparole e versi, i Sonetti, la Tempesta, la frase di Simone Weil secondo cui non c’è conoscenza senza sofferenza. Ranieri racconta che questo tipo di sofferenza la conosce, «l’ho seguita, perché senza sofferenza non esiste mai un artista, e solo la serenità ti aiuta ad accettarla, a tenerla a bada, a capirla. La serenità, dico, non la felicità, che invece non dura».

Come un dee-jay della radio subito dopo un pezzo dei Beatles, Massimo Ranieri fa i conti con una domanda atroce: e ora? «Dopo Riccardo III cos’altro fai? Mi sento come quando uscii dall’esperienza con Strehler. Mi guardai attorno e pensai: dove vado? Sei sul tetto, più su non puoi salire. Non si offenderà nessuno se dico che Strehler era il rigore, la serietà, la bellezza. Era il teatro. Patroni Griffi si raccomandava: devi lavorare con quello là, ti amerebbe molto. Aveva ragione. È stato così. Dopo, facile non è. Il teatro soffre, la prosa più degli altri generi. Il pubblico è distratto. Quando esce di casa vuole sorridere. Cerca leggerezza. E allora dopo Riccardo III, come dopo Strehler, puoi solo tirare una riga e con umiltà ricominciare daccapo».

(Il Venerdì, 17 novembre 2017)

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