Puoi farti gli affari tuoi e vivere
cent’anni, oppure restare fedele a ciò per cui sei venuto al mondo. Esiste una
linea di frontiera, nel Mezzogiorno d’Italia, lungo la quale una tonaca da
prete può essere una divisa o un costume, il segno di una responsabilità e di
una promessa, o solo l’abito ben stirato di un esercizio. Dentro questo dilemma
con cui la debolezza di molti uomini si confronta in certi territori, indaga L’equilibrio, il nuovo film di Vincenzo
Marra, napoletano, 45 anni, che al prossimo festival di Venezia torna nella
sezione “Giornate degli autori” cinque stagioni dopo aver presentato Il gemello.
Come essere sacerdote quando intorno a te regna l’orrore?
Esiste la via
di don Antonio, che si indigna per i rifiuti tossici interrati nel quartiere ma
chiude gli occhi sui veleni degli uomini in superficie, oppure la via di don
Giuseppe, il nuovo parroco che da Roma giunge in questo angolo della periferia
napoletana dimenticato dalle istituzioni, pronto a tutto, pure al sacrificio
personale, pur di non rinunciare alla missione di rappresentare Cristo in
terra. Un film che a un cast di strada aggiunge le interpretazioni potenti di
Roberto Del Gaudio (don Antonio) e Mimmo Borrelli (don Giuseppe), al suo
debutto da protagonista al cinema dopo tanta drammaturgia impegnata, teatro
civile e scrittura militante, da Napucalisse
a Sanghenapule.
“Era dall’inizio della carriera che desideravo girare un film
cristologico”, racconta Marra, che debuttò parlando di immigrazione in Tornando a casa (miglior film alla
Settimana della critica, Venezia 2001) e da allora non ha smesso di dedicarsi
al cinema necessario, scarno, ai viaggi nel cuore della complessità. “Borrelli
e Del Gaudio sul set si interrogavano su cosa avrebbero fatto loro stessi al
posto dei rispettivi preti, su chi avesse ragione, sul comportamento più giusto
da tenere in quel determinato contesto”. Il contesto è un piccolo inferno come molti
in Campania, in cui la comunità vive un pacifico stato di soggezione nei
confronti di un boss, che autorizza e protegge piccoli e grandi soprusi: una
capretta che occupa il campo di calcetto sottraendolo ai bambini; la
segregazione dei tossicodipendenti della zona in una baracca sotto al ponte,
così che gli affari dello spaccio non siano ostacolati da curiosi né da poliziotti;
mostruosità familiari che non devono emergere per non attirare i giornalisti, e
dunque le luci, le attenzioni, le indagini. L’equilibrio, solo questo conta.
Don Antonio l’ha capito e l’ha accettato. Don Giuseppe l’ha scoperto e s’è
messo in testa di farci la guerra. Il film sarà in sala dal 29 settembre,
distribuito dalla Warner Bros.
“Ho girato la periferia in lungo e in largo alla ricerca di qualche
storia vera. Alla fine - dice il regista – ho realizzato che solo la fantasia
poteva darmi le cose che cercavo e che volevo raccontare per una riflessione
mia su cosa è l’impegno, cosa è la giustizia, qual è il compito di un sacerdote
nei luoghi abbandonati dallo Stato. Nel mio doppio percorso da documentarista e
da regista di finzione, alla fine ho sempre fatto cinema in un modo solo: vado
nei posti, giro a piedi senza paura e guardo”. Girato nel quartiere Ponticelli,
ma ambientato in una periferia ipotetica, priva di nome, L’equilibrio cuce i riferimenti al dramma della Terra dei Fuochi con
quelli alle vicende di cronaca nera nel Parco Verde di Caivano. Quattro anni
fa, nel libro “La buona novella” (Guida editore), la giornalista Ilaria Urbani tracciò
la mappa dei tanti “uomini religiosi”, così scrisse, “che hanno gridato il loro
dissenso e che cercano di colmare un vuoto”. Quei ritratti sono poi divenuti
una serie per Tv2000. La Campania è la terra in cui è caduto don Peppe Diana, assassinato
dalla camorra a Casal di Principe, in sacrestia; la terra in cui don Ciro
Nazzaro, parroco nel rione Salicelle ad Afragola, un giorno ha trovato la
pallottola di una pistola davanti alla chiesa, perché dall’altare aveva
denunciato gli abusi sui minori, gli incesti, le troppe ragazzine rimaste
incinte dei loro padri. Scriveva Roberto Saviano nell’introduzione a “La buona
novella”: “Dove sono nato non ho conosciuto la Chiesa. Ma ho conosciuto le
chiese. La chiesa che raccoglieva in prima fila a messa gli ammiragli del
cemento del mio territorio, indulgente coi boss, pronta a discriminare e
difendere la parte peggiore. E poi ho conosciuto una chiesa che vuol dire
comunità, famiglia, casa”.
Il don Giuseppe di Vincenzo Marra è iscritto a questa seconda schiera e
un giorno arriva a bestemmiare Dio. Marra pesa le parole: “Mi sono documentato.
Ho avuto dei sacerdoti in famiglia e una educazione al loro ruolo che viene da
lontano. Non voglio dire che succede spesso, ma succede. Come se fosse un atto
d’amore pure quello, un momento in cui nel dialogo con Dio emergono parole
forti. Non riesco a immaginare quale
sarà la reazione della Chiesa al film. Mi piacerebbe che ci fosse un approccio
aperto alla discussione, non all'aggressione. Spero che faccia discutere,
questo sì. Don Giuseppe è un uomo che sceglie di non farsi fermare dalla paura,
di esporsi, di porsi, di dire, di fare, un uomo integro nel suo procedere”. Non
un santino, ma carne: il film ce lo presenta immediatamente come un uomo che ha
ceduto a una debolezza che il sacerdozio non contempla. “Ma è pronto a non
sottrarsi al suo destino. E’ un sacerdote che sfida, mi interessava raccontare
il percorso spirituale di un prete che non mette la testa sotto il cuscino.
Napoli ha compiuto passi avanti straordinari ma ci sono periferie estreme che
vivono in grandissima pena. In certe zone tocca allo Stato intervenire. Se lo
Stato si defila, le associazioni di volontariato e i sacerdoti non possono
pensare di salvare tutti”.
Perciò Don Giuseppe prova a salvare gli ultimi e i più indifesi. È la
sua scelta. “Non ci sarà un finale consolatorio. Il sacerdote paga le
conseguenze dei suoi comportamenti. Per sei mesi l’anno vivo a tredicimila
chilometri da Napoli, in Cile, dove la Chiesa ha un ruolo importante, con mille
sfaccettature. Una Chiesa che a suo tempo si è schierata contro la dittatura, a
differenza di quanto accaduto in prevalenza in Argentina”. Altre trincee in cui
resta buona la domanda che il don Giuseppe di Marra si pone quando viene
invitato a dire la messa e basta, a farsi gli affari suoi: “Se io rimango in
chiesa a pregare, gli altri che fine fanno?”.
(Venerdì di Repubblica, 11 agosto 2017)
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