martedì 22 agosto 2017

Il tennis visto dall'alto


Il povero signor James, Edward James, lasciò quella mattina del giugno ’81 la camera d’albergo e fece più o meno tutti i suoi gesti abituali, senza sapere ancora che invece stava arrivando un giorno speciale. Pettinò come al solito i capelli bianchi con la fila di lato, mise gli occhialetti e salì felice in cima al suo ufficio, un seggiolone a due metri d’altezza piazzato ai bordi del prato verde di Wimbledon, dove sarebbe finito per un istante e per sempre nella vita di John McEnroe, da lui insultato come “un pazzo incompetente”, “un’offesa verso il mondo”, anzi “the pits of the world”, come dire, la cosa peggiore sulla faccia della terra. “You cannot be serious”, non puoi dire sul serio. La frase con cui John protestò, così celebre da diventare il titolo della sua biografia e il marchio della sua fabbrica di neurodeliri, se la prese in faccia questo pacioso dentista gallese, con apprezzato studio nella città di Llinelli, ma per una trentina di settimane l’anno giudice arbitro di tennis. Il primo nella storia a uscire dall'anonimato.


Il mondo visto dall'alto di una sedia è fatto di linee bianche da sorvegliare e palline gialle di cui non perdere traccia, traiettorie che ormai viaggiano oltre i duecento chilometri orari e da seguire con lo sguardo nell'aria, da sinistra a destra, da destra a sinistra, collo e testa che si spostano per almeno un paio d’ore, la cervicale infiammata come compagna di viaggio. Lavorano per restare invisibili, ci accorgiamo di loro solo quando sbagliano. Hanno da sempre un microfono per aggiornare il risultato e chiedere alla folla di calmarsi (“quiet, please”), ogni tanto un ombrellone per proteggersi dal sole, un telefono per ordinare gli asciugamani, un palmare, una radio e un auricolare. Fanno centomila chilometri in un anno - due volte e mezzo la circonferenza della terra – per arbitrare una o due volte al giorno, partite dalla durata imprevedibile e con un’attesa tra l’una e l’altra incalcolabile. Una realtà sintetica, un universo a parte. Esiste una rigorosa gerarchia contrassegnata da colori dentro questo mondo bizzarro di uomini e donne che si sono scelti gli stessi ritmi confusi di Federer guadagnando migliaia di volte in meno: secondo una scala di bravura e di impegno, tra i 1.000 e i 3.500 euro al mese, spese vitto e alloggio a parte. Ogni arbitro ha un badge che va dal bianco all'oro, il bronzo e l’argento sono i gradi intermedi. L’oro consente di arbitrare le partite più prestigiose, come le finali di Slam (Melbourne, Parigi, Wimbledon, New York), ed è in tasca a 30 persone in tutto, 21 uomini e 9 donne. Si comincia dai livelli nazionali, dopo il corso che ciascuna federazione tiene nelle proprie scuole, si sale al gradino superiore fatto di piccoli tornei e di manifestazioni giovanili, e un po’ più su c’è questa vita da globetrotter, che qualcuno comincia per caso, altri per un’ossessione. Il brasiliano Carlos Bernardes, uno dei senatori del circuito con cinque finali di Slam e quattro Olimpiadi, iniziò perché il papà era morto e servivano soldi per mandare avanti la famiglia. Ne sapeva di tennis, aveva giocato, nei week-end scavalcava con gli amici di nascosto il muro del circolo a São Caetano do Sul, e a sedici anni dava lezioni, finché il giornale locale annunciò che la federazione cercava con urgenza 139 arbitri. È l’uomo che due anni fa al torneo di Rio fece arrabbiare Nadal. Lo autorizzò a rientrare negli spogliatoi per cambiarsi i vestiti inzuppati di sudore, ma quando Nadal tornò con la maglietta asciutta e i pantaloncini bagnati ancora addosso, gli negò un secondo permesso e lo obbligò a toglierseli sul campo, con un telo legato intorno ai fianchi. Mohamed Layani, svedese, studiava invece per diventare chef e insegnante di educazione fisica. I suoi avevano sia un ristorante sia una palestra. Ha preso la terza via. Layani teorizza che una delle doti di un arbitro è la voce: “Mai sovrapporsi al boato della folla”. Come del resto sa bene Lynn Welch, fino a qualche anno fa la sola americana con il gold-badge, il giudice di sedia con la voce più bella del mondo. Una tv statunitense mandò in onda uno sketch in cui un pupazzo si innamorava di lei al suono dell'annuncio “time”, la parola con cui i giocatori vengono richiamati in campo dopo il riposo. “Certe volte mi sveglio e non so dove sono, se in America o in Asia”, raccontava miss Welch, a testimonianza di questo stile di vita fatto di aeroporti taxi e hotel, attese, tennis, tempi vuoti, tennis, tempi morti, tennis. Eva Asderaki-Moore, prima donna ad aver arbitrato una finale maschile a New York (2015), dice di aver visto posti incredibili nel mondo “ma in cambio mi sono persa i compleanni dei miei amici, ormai hanno smesso perfino di invitarmi, perché immaginano che io non ci sia mai”. Si parte il giovedì e si rientra a casa a fine torneo, tredici giorni dopo, il martedì. Il tempo di rifare i bagagli e si ricomincia. L’Italia ha quattro arbitri di alto livello: Gianluca Moscarella (gold-badge), Manuel Messina, Damiano Torella e Cecilia Alberti. Il più popolare di tutti rimane Romano Grillotti, oggi settantenne, ritirato nel 2007 dopo venticinque di attività e settemila partite, compresa una finale Federer-Nadal al Foro Italico. Dice che “non si diventa un buon arbitro azzeccando le risposte alle trentadue domande del questionario a scuola. Conta di più avere equilibrio sulla sedia, la giusta relazione con i giocatori. A me piaceva arbitrare quelli più burrascosi come Tarango. Devi conoscere i toni giusti quando un giocatore d’esperienza viene a pressarti cercando di farti pesare il suo nome. Io ho cominciato a 37 anni, mi dissero che era tardi, che non ce l’avrei fatta mai, ero già sposato, avevo un’azienda che vendeva tubi e raccordi, e sentivo di essere in pace con me e con il mondo. Non avevo conflitti interiori da risolvere e questo mi ha aiutato. I più giovani magari all'inizio faticano”. Grillotti ha imparato col tempo che ai giocatori non si deve dire mai: la palla è fuori. “Meglio dire: io ho visto la palla fuori. Le parole giuste aiutano a costruirsi una credibilità. Mai sporgersi dalla sedia, mai ritrarsi. La tecnologia ha ridotto il rapporto con i giocatori, ci sono meno discussioni. Per una palla incerta si va a guardare l’occhio di falco, ma ci sono colpi che escono di millimetri e che la macchina considera buoni. Un giorno ho messo una pallina sotto la mia sedia: la camera che inquadrava da una sola posizione la considerava in campo”. Mike Morrissey rischiò di prendersi una pallata in faccia da Agassi. Bruno Rebeuh incassò uno schiaffo dalla moglie di un giocatore dopo una partita. “Se glielo avesse dato lui”, spiegò la donna, “lo avrebbero squalificato. Allora ci ho pensato io”. Una vita di molte rinunce, dice Grillotti: “Chi si fa accompagnare dalla fidanzata, arbitra peggio. Se hai un match fissato alle otto e lei chiede a che ora torni, tu cosa gli rispondi? Qualcuno si porta dietro i figli piccoli che piangono: un macello. In venticinque anni, mia moglie mi ha seguito due volte, ed era meglio se rimaneva a casa”. Poi c’è il sacrificio più alto. “A Wimbledon ho arbitrato un match durato 5 ore e 45 minuti. Meglio non bere troppo prima del match, così non devi andare a fare la pipì. Può capitare di dover scendere dal seggiolone e scappare in bagno, a me non è successo. L’importante è sbrigarsi, non come i tedeschi che escono con flemma e rientrano col passo di Wanda Osiris”.

(Venerdì di Repubblica, 18 agosto 2017)

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