Nel 1922, per la morte volontaria del collega Francesco
Perotti, redattore capo del “Secolo”, Renato Simoni scrisse su “L’illustrazione italiana” un articolo
sul senso del giornalismo, sul conflitto tra l’io e il mondo che si può
accendere in chi lo pratica, su certe inquietudini nascoste da tenere al
guinzaglio, sul dovere di testimoniare, il rigore, il rispetto di sé e dei
lettori, e sulla scoperta improvvisa di non essere più adeguati. La malinconia
dei giornalisti.
***
“Un giornalista s’è ucciso. Chi ha conosciuto Francesco
Perotti, redattore capo del “Secolo”, spirito ordinato, chiaro fino alla
limpidezza, generoso come sono solo i forti, china la fronte commosso, davanti
al mistero di questa tragica stanchezza di vita. Ma noi, da anni, e da anni
posseduti da questo affascinante e logorante amore del giornale, sentiamo a
poco a poco la nebbia dissiparsi, comprendiamo con angoscia perché questo
nobile compagno ci ha lasciati. E non sono cause precise che scopriamo. Abbiamo
solo il sentimento del malessere grigio, che vien dall’eccesso della nostra
fatica, dallo sfaldarsi cotidiano della nostra personalità, che di questa
fatica è la conseguenza. La carta bianca è crudele con tutti; con noi è crudelissima.
Da noi richiede obbedienza cieca e pronta; non ci consente lo sforzo pacato, ma
ci comanda lo sforzo impetuoso, l’improvvisazione disperata, la corsa che
toglie il fiato. Il minuto è la nostra unità di tempo. Non ci sono permesse né
le esitazioni, né i pentimenti. Ci son tolte la solitudine e la meditazione.
Vorremmo divenire; e dobbiamo sprecare in boccio quello che poteva essere fiore
e frutto. Noi ci stanchiamo di noi; delle nostre parole, che non han più tempo
di rimutarsi, di prender la foggia delle idee; del nostro inchiostro, che
scorre via senza freno, torbido e carico di detriti; del nostro cervello che
obbedisce ai nostri ordini, e non ci porta mai via, dietro ai suoi capricci.
Talora sogniamo di lottare per superare le belle ardite difficoltà; la vita ci
costringe, invece, a faticare per imparare le più luccicanti facilità. Si muore
ogni giorno, nell’anima nostra. L’ha detto con eloquente e commossa evidenza
Innocenzo Cappa, parlando sulla bara del nostro povero collega. E’ vero. Non ce
ne accorgiamo, mentre ci buttiamo via così. C’è anzi in noi una gioia
affaccendata, per tutte le prontezze delle quali siamo capaci in servizio del
nostro adorato giornale. Ci pare d’essere forti, nervosi, d’avere una
elasticità giovanile nella mente. Il fervore dell’opera ci trascina; ma non
dell’opera individuale; dell’opera collettiva. Ci pare di aggiungere dei
congegni nuovi alla macchina; ed è la macchina che ci afferra, ci travolge, ci
sbatte dentro i suoi ingranaggi; e la nostra personalità perde ogni forma. Siamo
capaci anche d’essere felici di questo. Chiamiamo questo essere non mai nostri
ma di tutti, “sentimento del nostro tempo, vibrazione giornalistica”. Ma se c’è
una sosta, se ci raccogliamo per un momento a pensare, se proviamo la nostra
penna fluida e spuntata su un foglio che non aspetti scritture da giornale, noi
ci accorgiamo che l’abitudine, che la possibilità alla lentezza ricercatrice
sono perdute. Ci rendiamo conto di esser dannati all’inferiorità; e torniamo al
lavoro del giornale senza neppure la serenità che avevamo prima, nella febbre
inconsapevole della nostra passione; siamo pieni di scrupoli e di paure, e
dobbiamo, non acquetarli, che non è possibile, ma fingere di dimenticarli;
sappiamo che ci distruggiamo; ma non possiamo più salvarci, innamorati di quest’arte
effimera, alla quale ostinatamente sacrifichiamo tutto.
E il vero male comincia, non quando una precoce
vecchiezza diminuisce la nostra vivacità e la nostra rapidità; ma assai prima,
quando sentiamo che siamo ancora forti, capaci, utili; ma che c’è in noi la
impossibilità di essere nuovi. Noi ce ne accorgiamo prima che se ne avveda il
nostro pubblico; noi sentiamo che i modi della nostra immaginazione, della
nostra osservazione, sono ormai quelli; passaggi d’ogni giorno per la stessa
via trita. Ah! Chi può dire la desolazione di lasciar scorrere parole senza
freschezza, risciacquature di pensieri scaldati e riscaldati! Questa è la vera
malinconia di noi giornalisti, se non siamo vanitosi, o futili".
Renato Simoni
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