martedì 6 giugno 2017

La malinconia dei giornalisti

Nel 1922, per la morte volontaria del collega Francesco Perotti, redattore capo del “Secolo”, Renato Simoni scrisse su “L’illustrazione italiana” un articolo sul senso del giornalismo, sul conflitto tra l’io e il mondo che si può accendere in chi lo pratica, su certe inquietudini nascoste da tenere al guinzaglio, sul dovere di testimoniare, il rigore, il rispetto di sé e dei lettori, e sulla scoperta improvvisa di non essere più adeguati. La malinconia dei giornalisti.
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“Un giornalista s’è ucciso. Chi ha conosciuto Francesco Perotti, redattore capo del “Secolo”, spirito ordinato, chiaro fino alla limpidezza, generoso come sono solo i forti, china la fronte commosso, davanti al mistero di questa tragica stanchezza di vita. Ma noi, da anni, e da anni posseduti da questo affascinante e logorante amore del giornale, sentiamo a poco a poco la nebbia dissiparsi, comprendiamo con angoscia perché questo nobile compagno ci ha lasciati. E non sono cause precise che scopriamo. Abbiamo solo il sentimento del malessere grigio, che vien dall’eccesso della nostra fatica, dallo sfaldarsi cotidiano della nostra personalità, che di questa fatica è la conseguenza. La carta bianca è crudele con tutti; con noi è crudelissima.


Da noi richiede obbedienza cieca e pronta; non ci consente lo sforzo pacato, ma ci comanda lo sforzo impetuoso, l’improvvisazione disperata, la corsa che toglie il fiato. Il minuto è la nostra unità di tempo. Non ci sono permesse né le esitazioni, né i pentimenti. Ci son tolte la solitudine e la meditazione. Vorremmo divenire; e dobbiamo sprecare in boccio quello che poteva essere fiore e frutto. Noi ci stanchiamo di noi; delle nostre parole, che non han più tempo di rimutarsi, di prender la foggia delle idee; del nostro inchiostro, che scorre via senza freno, torbido e carico di detriti; del nostro cervello che obbedisce ai nostri ordini, e non ci porta mai via, dietro ai suoi capricci. Talora sogniamo di lottare per superare le belle ardite difficoltà; la vita ci costringe, invece, a faticare per imparare le più luccicanti facilità. Si muore ogni giorno, nell’anima nostra. L’ha detto con eloquente e commossa evidenza Innocenzo Cappa, parlando sulla bara del nostro povero collega. E’ vero. Non ce ne accorgiamo, mentre ci buttiamo via così. C’è anzi in noi una gioia affaccendata, per tutte le prontezze delle quali siamo capaci in servizio del nostro adorato giornale. Ci pare d’essere forti, nervosi, d’avere una elasticità giovanile nella mente. Il fervore dell’opera ci trascina; ma non dell’opera individuale; dell’opera collettiva. Ci pare di aggiungere dei congegni nuovi alla macchina; ed è la macchina che ci afferra, ci travolge, ci sbatte dentro i suoi ingranaggi; e la nostra personalità perde ogni forma. Siamo capaci anche d’essere felici di questo. Chiamiamo questo essere non mai nostri ma di tutti, “sentimento del nostro tempo, vibrazione giornalistica”. Ma se c’è una sosta, se ci raccogliamo per un momento a pensare, se proviamo la nostra penna fluida e spuntata su un foglio che non aspetti scritture da giornale, noi ci accorgiamo che l’abitudine, che la possibilità alla lentezza ricercatrice sono perdute. Ci rendiamo conto di esser dannati all’inferiorità; e torniamo al lavoro del giornale senza neppure la serenità che avevamo prima, nella febbre inconsapevole della nostra passione; siamo pieni di scrupoli e di paure, e dobbiamo, non acquetarli, che non è possibile, ma fingere di dimenticarli; sappiamo che ci distruggiamo; ma non possiamo più salvarci, innamorati di quest’arte effimera, alla quale ostinatamente sacrifichiamo tutto.
E il vero male comincia, non quando una precoce vecchiezza diminuisce la nostra vivacità e la nostra rapidità; ma assai prima, quando sentiamo che siamo ancora forti, capaci, utili; ma che c’è in noi la impossibilità di essere nuovi. Noi ce ne accorgiamo prima che se ne avveda il nostro pubblico; noi sentiamo che i modi della nostra immaginazione, della nostra osservazione, sono ormai quelli; passaggi d’ogni giorno per la stessa via trita. Ah! Chi può dire la desolazione di lasciar scorrere parole senza freschezza, risciacquature di pensieri scaldati e riscaldati! Questa è la vera malinconia di noi giornalisti, se non siamo vanitosi, o futili". 
Renato Simoni

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