IL giorno prima, i tabloid si divertirono. Parlarono di trentamila camerieri in marcia verso Wembley. I camerieri erano gli italiani, secondo il luogo comune anni Settanta, di quei cliché che nascono come sfottò e diventano un marchio. Fino alla sera del 14 novembre ‘73, la Nazionale non aveva mai vinto in Inghilterra. Successe nel più italiano dei modi, tanta difesa, poco contropiede, il calcio che piaceva a Gianni Brera, ma forse esagerammo se lo stesso Brera giunse a definire «scippo» quello zero a uno. Gol di Capello, i maestri da allora non si sono più ripresi. Il complesso verso l'Italia esiste ancora.
Intorno a quella partita e alla sua attesa, Lorenzo Fabiano ha costruito un romanzo generazionale, nel quale rigorosa è la ricerca storica e gustosa la ricostruzione del clima con cui se ne andavano una dopo l'altra le domeniche: la passeggiata del mattino, il pranzo, lo stadio, il ritorno a casa, l'episodio di Attenti a quei due con Tony Curtis e Roger Moore, poi Novantesimo minuto e la telecronaca registrata di un tempo di una partita di serie A: scelta a sorpresa, quasi sempre la Juve.
sabato 28 novembre 2015
giovedì 26 novembre 2015
Pavoletti e la gioia dell'ultimo istante
BUTTA la palla dentro, e poi vediamo. Non c'è tempo per un altro cross. Non c'è tempo per un secondo colpo di testa. Rimane una sola occasione. Quella. Al Genoa sanno di cosa si parla. Oltre il 90' hanno già segnato con Laxalt il 3-3 al Torino e con Tachtsidis il 3-2 al Chievo. Un anno fa gli invasati di Gasperini avevano addirittura esagerato: quattordici gol nell'ultimo quarto d'ora, più di tutti in serie A, di cui sei fra novantesimo e dintorni. È gente che sa come si fa. E se c'è da segnare all'ultimo respiro, non c'è persona migliore di un ragazzo salito sull'ultimo treno che passava. Leonardo Pavoletti, per esempio. Un altro dei post-giovani d'Italia. Quelli che hanno rincorso, con l'occhio al tabellone del quarto uomo, convinti di avere sempre qualche minuto di recupero.
Di solito la gioia dell'ultimo istante è la più preziosa. Ci metti le mani sopra e sai che ai cattivi non rimane più tempo per portartela via. Quando era ragazzo, nell'età in cui si è prigionieri dell'ottimismo e delle fantasie, Pavoletti Leonardo da Livorno aveva in testa un sogno solo: giocare nello stadio della sua città. L'Armando Picchi, quello di idoli come Lessi e Stua, il prato per cui Cristiano Lucarelli pronunciò il celebre motto "Tenetevi il miliardo". Poi al Picchi ci arrivi, dopo la serie D, dopo la Lega Pro, e scopri che fare il bagno d'estate a Quercianella non ti basta più. Fa tenerezza ora, Pavoletti, mentre a ventisette anni (li compie dopodomani) racconta di sognare la Nazionale, mentre si dice pronto per il grande salto e lo dimostra pure, con cinque gol in nove partite, in media uno ogni 132 minuti, per intendersi meglio di Bacca e di Gervinho. Però la Nazionale, come va spiegando Conte, adesso è un'altra cosa. È un gruppo chiuso, ormai. Si sa, le gerarchie. Ci gioca chi ci ha giocato già, non hai fatto in tempo, peccato, è stata tua la colpa e allora adesso che vuoi.
La longevità è dei Totti e dei Buffon, la precocità è dei Rivera e dei Meazza. I Pavoletti crescono facendo lo stesso famoso baccano della noce che cade dall'albero: unica, sola e silenziosa. Francesco Antonini, padre della geriatria in Italia, spiegò in "L'età dei capolavori" (Marsilio, 1991) che il cervello di un giovane è paragonabile a un calcolatore «molto veloce e potente ma con pochi programmi inseriti, incapace perciò di esprimere tutte le proprie potenzialità». I Pavoletti avranno pure un software migliore, perché se lo sono costruiti nel tempo, spesso nell'ombra; solo che il tempo è comunque passato, e il mondo pare propenso a disperarsi solo per gli spazi che si sottraggono agli implumi. I Cabrini e i Paolo Rossi si portano ai Mondiali all'ultimo istante, tu sei Pavoletti, non hai il curriculum, la competenza, vallo a spiegare che il problema casomai sta in un sistema che non sa più reclutare, che ha bandito la pazienza, l'attesa; un paese che non ha avuto voglia di scoprire i Magnanelli, i Croce, i Soddimo, figuriamoci se può occuparsene adesso, al novantacinquesimo e oltre.
Pavoletti - bisogna che qualcuno abbia il coraggio di avvertirlo - continuerà a segnare e a guardare l'Italia in tv. Potrà forse consolarlo il pensiero di Indro Montanelli, toscano come lui, convinto che «il bordello è l'unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto».
(uscito su Repubblica)
mercoledì 25 novembre 2015
Dieci pezzi su George Best
Il primo passo dell'alcolista per guarire è ammettere la propria malattia: Best l'ha ammessa da sempre ma non è mai guarito. Raccontava del suo ingaggio ai Los Angeles Aztecs, un'altra umiliazione, non umana ma tecnica, e del fatto che gli avevano trovato una casa vicino al mare. "Ma per arrivare all'Oceano dovevo passare davanti al bar. Non sono mai arrivato all'acqua". [...]
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martedì 17 novembre 2015
Perché Troisi ci tolse dai guai
Torna nelle sale per due giorni Ricomincio da tre, il film di Massimo Troisi che cambiò l'umorismo e il modo di parlare di noi ragazzi napoletani degli anni Ottanta. Un cinema che venne accusato d'essere imperfetto, quello di Troisi, con poco formalismo e poca accademia nelle scene. Veniva dal teatro, dal cabaret, dalla televisione. Il centro della scena lo prendeva la parola, o forse dovremmo dire la sua quasi assenza, l'impossibilità di essere compiuta, rotonda.
Pirlo e il più maldestro dei tiri
Se spiazza l'Italia senza Pirlo, se vi hanno spiazzato le parole di Conte della settimana scorsa ("Dovrò fare le mie valutazioni e considerare che lui possa non far più parte della nazionale"), allora bisogna cominciare a considerare che cosa è stato, di Pirlo e di noi. C'è un libro appena uscito che può aiutarci. L'ha scritto Marco Ciriello, del quale s'era già parlato qui a maggio 2014 per un bel romanzo costruito intorno alla figura di un allenatore.
lunedì 16 novembre 2015
Sorella Ungheria
Il portiere ungherese Gábor Király |
L’avrete forse scorto in tv Gábor Király, quel signore stempiato che sta in porta all’Ungheria, vestito con i pantaloni di una tuta grigia. Ad aprile compirà 40 anni ed è l’unico giocatore della squadra ad aver visto la sua Nazionale in campo a un Mondiale (Messico ’86). Gli ultimi Europei no, nessuno dei ragazzi di Budapest li ricorda, nessuno era ancora nato nel ’72. Ma adesso ci andranno loro, il viaggio nel vuoto è finito, la prossima estate l’Ungheria torna a un grande torneo.
giovedì 12 novembre 2015
Il Belgio marpione e smandrippato
Vincenzo Scifo |
mercoledì 11 novembre 2015
Il gol che smentisce Confucio
disegno di Paolo Samarelli |
Prima d’essere contato fino a dieci e finire fuori combattimento per k.o., come gli sarebbe toccato al cospetto di un qualunque arbitro di boxe, dal tappeto del ring in erba di uno stadio chiamato Matusa, l’uomo che confuta Confucio scrive con i piedi l’elegia della seconda occasione. Lui, mancino, si avvita su un cross con l’ambizione di Gigi Riva e l’eleganza di un elefante.
martedì 10 novembre 2015
Il mito dell'attaccamento alla maglia
Insigne in lacrime dopo la sconfitta nella finale dell'Europeo Under 21 nel 2013 |
Del resto è un argomento che sa scatenare il boato della folla. L’attaccamento alla maglia è quel sistema di valori (magari un giorno andrà messo a punto per bene) a cui in genere fanno riferimento le curve, peraltro a volte con metodi foschi. L’attaccamento alla maglia però non è un parametro tecnico, rientra nella sfera dei sentimenti. In un gruppo di lavoro, in un mondo super professionistico, dovrebbero invece essere le regole a guidare i processi, e non i sentimenti. Se qualcuno sbaglia viene punito. Alla luce del sole. In questo mondo ideale fatto di regole, un ct avrebbe tutto il diritto di prendere un provvedimento disciplinare. Nessuno potrebbe contestare nulla a Conte se davanti a un microfono dicesse: “Li ho puniti perché l’altra volta lasciarono il ritiro”.
lunedì 9 novembre 2015
L'arte totale del calcio di rigore
Franco Baresi e il rigore sbagliato nella finale mondiale '94 a Pasadena |
CADONO E SI ABBRACCIANO, perdonateli, perché non sanno quello che fanno. L’arbitro fischia un fallo in area e loro esultano prima ancora di andare a tirare. Cosa volete che sia, pensano, un rigore. Perdonateli, benedetti ragazzi, perché invece un rigore è una faccenda complessa. È l’unico gesto del calcio in cui non c’entra solo il calcio. È il gesto sportivo più studiato. Dentro il tragitto da undici metri di un pallone verso la porta, dentro un mistero cominciato mentre finiva l’Ottocento, si sono immersi con le rispettive competenze economisti, fisici, informatici, psicologi, fisiologi, militari, scrittori, semiologi, antropologi, etnologi, registi.
domenica 8 novembre 2015
Pioli-Garcia e le montagne russe di Roma
Tornavano da Napoli, ed erano eroi di maggio. Con una qualificazione europea in tasca e diecimila ad attenderli a Formello; le tre di notte, Parolo e Marchetti alticci, Pioli che faceva i selfie. Tornarono di nuovo, sempre loro, sempre da Napoli, le tre di notte ancora, ma erano già “undici indegni” oppure “undici vermi”, così scrissero sui muri solo tre mesi dopo, mica una vita, per via di cinque gol subiti: era settembre. Pioli aveva smesso con gli autoscatti, mormorava “dobbiamo guardarci negli occhi” e saliva sulle stesse montagne, un po’ russe e molto romane, dove Rudi Garcia fa su e giù da un anno almeno. La Roma era alla gogna ad aprile (“Capricci da innamorati” minimizzò lui) e venerata il venticinque maggio, giorno del derby vinto e delle magliette nuove di Totti-il capitano. “Game over” dicevano, ed era falso, perché il gioco a Roma non finisce mai. Magari ci fosse davvero tempo per fermarsi, respirare, darsi ristoro.
venerdì 6 novembre 2015
Visconti, Fellini e i giovani d'oggi
Un paio di giorni fa Sky Arte trasmetteva un documentario francese, “Visconti vs Fellini”, in cui venivano raccontati questi due mondi che si scontrarono: l’opera contro il circo; Milano contro la provincia; l’aristocrazia contro la piccola borghesia; il realismo contro la cartapesta; la disillusione contro il sogno.
La nebbia mise fine al Milan di Sacchi
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giovedì 5 novembre 2015
Il paradosso di Dzeko
Neppure tre mesi dopo le grandi celebrazioni estive per l'accoglienza dei veri nove, la Juve ancora non ha visto il Mandzukic che s'aspettava e la Roma forse mai vedrà Džeko come lo immaginava. Il gol al Bayer Leverkusen ha persino confermato il sospetto cresciuto nei giorni in cui il gol non veniva: un vero nove a questa Roma probabilmente non serve. Non in questo momento, almeno, se è vero che il più lungo digiuno di Džeko dal 2008 in poi è stato interrotto con un contropiede. Uno shock niente male per uno atteso come Pruzzo-trenta-anni-dopo.
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