mercoledì 25 novembre 2015

Dieci pezzi su George Best

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Il primo passo dell'alcolista per guarire è ammettere la propria malattia: Best l'ha ammessa da sempre ma non è mai guarito. Raccontava del suo ingaggio ai Los Angeles Aztecs, un'altra umiliazione, non umana ma tecnica, e del fatto che gli avevano trovato una casa vicino al mare. "Ma per arrivare all'Oceano dovevo passare davanti al bar. Non sono mai arrivato all'acqua". [...]
E' facile pensare che la pressione su di lui, l'attesa delle sue meraviglie, alla fine l'ha travolto e che la sua magia, come spesso capita nel calcio, ha dato più agli altri che non a lui. Non l'hanno salvato gli amori, i suoi negozi di vestiti della swinging London, la sua Jaguar, non sono stati sufficienti a farlo diventare un uomo maturo. Il suo sogno, raccontato mille volte, era quello di superare in dribbling tutta una difesa, saltare anche il portiere, arrivare sulla linea di porta, fermare il pallone, chinarsi in ginocchio e sospingerlo in rete con testa. "Nella finale di Coppa dei Campioni contro il Benfica c'ero quasi riuscito. Avevo lasciato per terra il portiere, ma poi non ho avuto il coraggio di completare il piano. Temevo che al boss venisse un infarto". (Corrado Sannucci, 8 febbraio 2001)
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Tanti calciatori bevono, ma si disintossicano a forza di crossare dal fondo o di respingere di testa palloni destinati all'incrocio dei pali. Lui no. Era troppo bello. E troppo autolesionista. La storia del calcio inglese è piena di centrocampisti che si sono riempiti la pancia di birra, di stopper alticci e di attaccanti con la fissazione dei pub, ma Best fu più degli inglesi, più degli irlandesi, più degli altri che come lui vinsero il Pallone d'Oro. Era un brasiliano travestito da irlandese. Aveva la follia innocente di Garrincha e il senso di colpa di un europeo. Non gli ci volle molto per dimostrare agli altri il proprio valore. Però gli fu impossibile dimostrarlo a se stesso. Vinse, ma non se ne accorse. Perse, ma non se ne accorse. Una notte fece l'amore con sei donne. Un giorno al Northampton fece sei gol. La sua carriera vera, prima di emigrare negli Stati Uniti, durò sei anni. Poco, tutto velocissimo, come un rock' n' roll di tre minuti. (Enrico Sisti, 7 maggio 2002)
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George Best con suo figlio
George Best con suo figlio
George Best ha deciso di vendersi il Pallone d'Oro vinto nel 1968. "Non sono in miseria, non ho bisogno di denaro, però ho pensato che averne altro non sarebbe male. In banca, il trofeo non serve a niente. Se lo porto a casa me lo rubano. Se lo vendo, mi godo i soldi finché sono vivo". Invece di sbirciare un oggetto dorato nel buio di una cassetta di sicurezza, George Best ha deciso che la vita è un Pallone d'Oro da calciare fino all'ultimo respiro. E poi rotoli dove vuole, senza rimpianti. (Maurizio Crosetti, 8 luglio 2003)
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E' finita questa lunga agonia, trentatré anni, perché George Best ha cominciato a morire quando a 26 anni, nel ' 72, già aveva deciso di ritirarsi, soffocato dal proprio talento, braccato dal proprio successo, annoiato dalle donne che poteva avere nel suo letto, compresa la Miss Universo con la quale fu sorpreso da un cameriere impiccione che si rivendette subito la storia, precisando che su quel letto oltre a Best e alla donna c'erano sparpagliate anche 20mila sterline, circostanze delle quali George non ricordava nulla. [...] Era il giocatore che Manchester aspettava da quando l'aereo si era schiantato sulla pista di Monaco nel '58 uccidendo otto giocatori, era il giocatore che fu esaltato dalle prime dirette della Bbc, che poco dopo il suo arrivo avrebbe cominciato a trasmettere il Match of the Day, e le sue magie arrivarono in un istante in ogni angolo d'Inghilterra. Fu un'esplosione di meraviglia, che nutrì e fu nutrita dai cambiamenti degli anni '60, così che si trovò a interpretare, applicata sul campo di gioco, la parte che altrove recitavano Mary Quant, Carnaby Street, i Beatles (e si tagliò i capelli a caschetto intorno al '65, con i baffetti ricorderà un po' Ringo Starr e un po' George Harrison, fino a diventare appunto il "quinto Beatle"), i capelloni, il sesso, le droghe e l'alcool: una parte terribilmente pericolosa, dispendiosa, logorante per chi come lo sportivo ha bisogno di altri supporti, l'allenamento, l'autocontrollo, la disciplina, difficili da mantenere mentre il postino ti rovescia a casa migliaia di lettere di fan alla settimana, le offerte degli sponsor (e fu tra i primi a fare il testimonial, "Mangiate Cookstown Sausages", le Best-sausages, le salsicce migliori), le proposte di mettersi in affari (e aprì un negozio di vestiti con Mike Summerbee, un giocatore del Manchester City). "Ma come volevo strafare in campo così volevo strafare fuori" ammise più tardi, rivedendosi seduto sul cofano della sua Jaguar, la sua macchina preferita, probabilmente per distinguersi da James Bond che guidava l'Aston Martin. (Corrado Sannucci, 26 novembre 2005)
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Quando uno si chiama Best è già segnato, nella vita. E curiosamente il suo nome contiene l'inizio e la fine della città dove è nato: Belfast. [...] Per il calcio inglese, che pure di ali ne aveva fabbricate, la fantasia era Best. A noi italiani sembrava un parente nordico di Gigi Meroni, con un pizzico di velocità in più. Aveva gli stessi capelli lunghi, lo stesso numero 7 sulla schiena, la stessa barba lunga di tre-quattro giorni e una grande predisposizione al dribbling. E il messaggio che trasmetteva agli spettatori era identico: va bene tutto, ma siamo qui per divertirci. [...] Bob Geldof ha detto di lui che è stato la prima pop star del calcio, ed è vero. Mai viste negli stadi inglesi tante donne come quando giocava Best. Che non era solo pop star ma anche sex symbol, bello e forse un po' dannato, come gli avventori delle taverne di Marlowe. Bello e certamente condannato, ieri c'è stato solo il fischio finale. Best non ha mai cercato di sottrarsi al suo destino: morire alcolizzato e povero lui che da una famiglia povera era nato. Se ne vantava, con battute rimaste famose: "Ho speso una fortuna in donne, alcol e macchine. Il resto l'ho sperperato". [...] Diceva che era più bello il calcio ai suoi tempi, che c'era più fantasia, ancora questa parola che ritorna. Ed è in virtù di questa parola che oggi preferisco rivedere Best in azione, lui giovane e bello, non la cosa senza più voce, gli occhi già spenti, che ci portavano in casa le ultime fotografie. Perché quella di Best è stata una morte in pubblico: di caduta in caduta, di disintossicazione in disintossicazione, di appello in appello, di ricaduta in ricaduta. Col tipico moralismo inglese: guardatelo, è un barbone. Aveva tutto e non ha più nulla. Le più belle donne del mondo, e adesso nemmeno una carezza può fare, da come gli tremano le mani. [...] Mentre si ammucchiano le magliette rosse all'Old Trafford, sotto la statua di Matt Busby, penso che Best, come Meroni, fosse un fiore dopo un disastro aereo, Superga e Monaco. Nel loro essere eroi della fantasia c'era questa saldatura a un lutto, e insieme una musica di speranza in cammino. [...] Non era troppo piccolo e leggero, o non più. Era troppo assetato di volo per non bruciarsi, lui ala, le ali. Che noi chiamiamo questa spinta libertà o autodistruzione ha poca importanza. Anzi, nessuna, per George Best, mani bucate e fegato spappolato. Guardiamolo fintare sulla sinistra e saltare l'avversario sulla destra. Il campo è di un verde magico, la maglia rossa ha il numero 7. In qualche pub canteranno prima o poi una ballata triste (anche più triste di "Danny Boy") e l'inizio sarà più o meno questo. (Gianni Mura, 26 novembre 2005)
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funeraleb   Erano in mezzo milione, sotto la pioggia, in fila dalla notte, per salutare George Best, il migliore dei suoi figli, come per un giorno l'ha chiamato la sua patria, arrivati da ogni parte dell'Irlanda, dall'Inghilterra, dall'Europa. E lui se n'è andato così, coperto dai fiori, mentre le Mercedes del corteo funebre che avevano lasciato la sua casa nell'Est Belfast venivano coperte dai fiori, dalle sciarpe, dai berretti lanciati da chi lo aspettava ai lati della strada. Lo hanno salutato come un capo di stato, con una cerimonia nella Great Hall del parlamento irlandese. Con la solennità che si riserva ai reali e con un umorismo che quelli non hanno, sparso a piene mani da Denis Law, il compagno di tante partite e di tanti party. E per un attimo ha sorriso anche Calum, il figlio che dal padre ha ereditato il viso e gli occhi. Funerali di stato per un calciatore, che idea incredibile, gli stessi onori per un eroe di guerra, il riconoscimento per chi ha fatto divertire un intero popolo. E quando la bara è stata deposta davanti al Parlamento, finito il lamento delle cornamuse, è iniziato un minuto di silenzio che ha tolto il respiro non solo alla sua famiglia, non a un intero paese, ma all'intera impalpabile comunità del calcio. [...] Denis Law prende il microfono, se Best era il quinto Beatle, lui è il settimo Monty Python. «Sapete perché George non passava mai la palla a me e a Bobby Charlton? Me l'ha detto Dickie proprio in questi giorni, che gliel'aveva detto George: perché eravamo sempre in fuorigioco. Una storia così la poteva raccontare solo lui». Dickie, il padre, è in prima fila, con i suoi 87 anni, ha già seppellito per alcolismo la moglie nel '68, e ha l'espressione di tanti della famiglia, "ma quante ce ne hai fatte passare, figlio mio". L'hanno detto spesso, voi avete perso l'idolo, noi il figlio, il fratello, il padre: tutti gli altri hanno perso un sogno, un amico al quale non avevano mai parlato ma al quale si sentivano attaccati. (Corrado Sannucci, 4 dicembre 2005)
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Suo marito è morto alcolizzato, ora lei lancia un appello affinchè un altro grande calciatore non faccia la stessa fine. Alex Best, l'ex-moglie di George Best, ha preso la parola pubblicamente per aiutare Paul Gascoigne, l'ex-giocatore dell'Inghilterra, del Newcastle e della Lazio che da mesi entra ed esce d'ospedale o di prigione a causa della sua dipendenza dall'alcol. "Ricordo bene quale era il problema con George - ha detto Alex a una rete televisiva britannica - La gente veniva da migliaia di distanza per vederlo bere nei pub che lui notoriamente frequentava. Era una specie di circo, i tifosi gli offrivano da bere, lui si ubriacava sempre di più". (Enrico Franceschini, 5 giugno 2008)
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Adesso invece siamo nell'era post-politica e post-calcistica, dove regna il modello Beckham, glamour e tatuaggi. E allora su Beckham si può ricordare la definizione che ne diede l'indimenticato genio alcolico di George Best: "Non ha il sinistro, non sa colpire di testa, non contrasta e fa pochi gol: a parte questo è grandissimo". (Edmondo Berselli, 22 dicembre 2008)
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I talenti sprecati sono talenti limitati che nessuna educazione poteva spingere oltre. E' probabile che i loro possessori lo sappiano e si rifugino nella recidiva per non affrontare la verità. Possono evolversi, cambiare? Cito una frase di George Best: "Nel 1969 ho dato un taglio a donne e alcol: sono stati i peggiori venti minuti della mia vita". Il punto è che gente come Best o Gigi Meroni rappresentava uno scarto, una controcultura, esprimeva la propria ribellione indicando stili e comportamenti alternativi. I loro eredi sono, anche, conformisti. Emettono il loro comunicato sdegnoso abbassando il finestrino di una Ferrari, risollevandolo in faccia alle repliche e sgommando via in una nuvola di fumo: ciò che molto spesso di loro rimarrà. Recuperabili? Denilson, pagato una cifra record dal Betis Siviglia, è stato rifiutato in 3 continenti e ha appena rescisso un accordo con la squadra greca del Kavala, per la quale ha giocato minuti zero. Best se n' è andato lasciando ai ragazzi un messaggio: "Non morite come me". Sarà stato utile? O il fascino della sregolatezza batte ogni strategia educativa (Gabriele Romagnoli, 22 aprile 2010)
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Sono dieci anni che George Best non c'è più (25 novembre 2005). Un brasiliano travestito da irlandese. [...] Faccia da Carnaby Street, vestiti da Swinging London. Lì in un ristorante fu avvicinato da un uomo con zazzera e zigomi prominenti che fece un profondo inchino e gli disse: lei è un vero genio. Era Rudolf Nureyev. Best era nato povero, in Irlanda del nord, a Cregagh estate, zona est di Belfast. Come diceva lui: "I soldi non erano un problema, nessuno li aveva". [...] Non è un caso che gli piacessero Zorro e Oscar Wilde. Poteva giocare fino a svenire. Rabbiosamente competitivo, ma insicuro. Quando vinse il Pallone d'oro su Bobby Charlton uscì e si ubriacò. [...] Chi aveva giocato contro di lui sapeva riconoscere la sua unicità. Bobby Moore al West Ham disse che si teneva più lontano da Best che da chiunque altro. Ron Harris al Chelsea confessò che Best era the best. Emlyn Hughes al Liverpool: «Ci ha levato la pelle». E Bill Shankly, che non faceva mai complimenti agli avversari, aggiunse: «Ragazzi, avete appena visto un genio all'opera». Perfino a Sir Alf Ramsey scappò un rimpianto: «Magari avessi Best». A 35 anni, quando era già un alcolizzato che entrava e usciva dalla riabilitazione, segnò un gol per il San Jose Earthquakes contro il Fort Lauderdale, bevendosi tutti gli avversari. Leggerezza, finte, fantasia. Ken Fogarty, ultimo difensore, ammise: «Mi ha fatto sembrare un pinguino ubriaco su uno skateboard». Si sciupò, sprecò se stesso e le occasioni, ma non l'umanità: giocò 93 partite per beneficenza. E quando vide per strada Abert Johanneson, del Leeds, malmesso e strafatto, lui che a fine ‘64 era stato il primo giocatore di colore a scendere in campo in una finale di FA Cup, lo portò in un albergo di lusso dove i camerieri rifiutarono di servire uno che assomigliava a un barbone. Ma Best nell'altro, oramai alla deriva, riconobbe la terribile disperazione che aveva visto anche nel suo volto. Il messaggio scritto con un pennarello nero sulla bandiera dell'Ulster il giorno del suo funerale, prima del lamento di una cornamusa in kilt, rimise a posto il mondo: «Maradona good. Pelé better. George Best». L'aeroporto di Belfast porta il suo nome. È l'unico dedicato a un calciatore. Let it be. George sapeva come volare. (Emanuela Audisio, 16 novembre 2015)

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