Il mister non lo sapeva e manco stava a sentirlo. "Dopo Roma c'è Zurigo". Intensi-intensi, si stava sgolando dalla panchina. "Dopo Zurigo viene Amsterdam". Come se l’intensità su un campo poi possa bastare. "Dopo Amsterdam, Copenhagen". Come se un grido - in genere - possa bastare. "E dopo Copenhagen, Praga. Praga insieme con Francoforte".
Aveva ragione Pinato Davide da Monza, 22 anni, riserva di Giovanni Galli - giacché fu lui che forse parlò per primo. In due minuti la nebbia era diventata fitta. "Ma della nebbia a Belgrado non avevo sentito mai parlare". Invece era lì, come pellicola trasparente intorno a una notte che per il Milan si stava complicando. Prima che la panchina intera venisse a conoscenza che nella lista delle dieci città con più foschia appare pure Lisbona, si sentì un fischio arrivare dall'altra parte del campo; e nel tempo che passa dal domandarsi cosa sia accaduto a quello in cui qualcuno ti avverte, la panchina si trovò di fronte Mauro Tassotti e una faccia di chi porta cattive notizie. "Mister, siamo rimasti in dieci". Espulso Virdis. Solo che il cartellino rosso non l'aveva visto nessuno, e nemmeno il fallo. "Che ha fatto Virdis?". "Ha dato una spallata a uno, a stento c'era il giallo". Ma il guardalinee era lì. Aveva visto lui. E tanto bastava. Fu in quell'istante che Arrigo Sacchi si alzò un'ultima volta prima di arrendersi. Dopo nove anni, il calcio-scommesse e due retrocessioni in serie B, il Milan era tornato in Coppa dei Campioni e adesso già ne usciva: 1-1 con la Stella Rossa a San Siro all'andata, ora sotto di un gol al Marakana di Belgrado e con un uomo in meno. La voglia di gridare intensi-intensi a quel punto ti passa. Sacchi si risedette e considerò su che cosa potesse fare ancora affidamento. Il campo era gelato, anche se così non era parso per Stojkovic e Savicevic, abili pattinatori e artisti del pallone: una partita giocata su una lastra, mentre il Milan diventava una lamella sfogliata. Stojkovic se ne era stato spesso a destra, per convincere Maldini a non farsi venire strani pensieri. Rijkaard, schierato stopper, anzi come diceva Sacchi da difensore centrale, aveva finanche dovuto sopportare un tunnel. Mentre Donadoni era arrivato sul fondo una volta appena. Nessuna via d'uscita. Restava una strada sola. Affidarsi alla nebbia. I dirigenti del Milan cominciarono a sbracciarsi. "Non si vede a dieci metri, non ci sono le condizioni per andare avanti". Senza considerare che proprio per via della nebbia l'arbitro non li distingueva dai raccattapalle. Allora misero un piede in campo, e subito dopo anche più d'uno, chiedendo che la partita fosse fermata. Il tedesco col fischietto prese prima il pallone tra le mani e poi una decisione. "Voglio fare una telefonata". Come quelli che nei film finiscono al commissariato. Quasi tutti lo guardarono storto, ovviamente i più vicini, gli altri neppure lo avevano individuato in mezzo a quell'alone grigio. Pauli, così si chiamava l'arbitro, si fece mettere in contatto con la stazione meteo di Belgrado. "Allora. Laggiù. Che previsioni avete?". Mezz'ora e la nebbia va via, si sentì rispondere. È su questi particolari che fioriscono i cliché. Se a un tedesco gli dici mezz'ora, il tedesco mezz'ora aspetta. E Pauli, teutonico, aspettò. "Attendiamo che vada via e poi riprendiamo". Il Milan si infuriò. "Non si può", eccepirono, "questa cosa è irregolare". Impassibile, l'arbitro fece notare che una sospensione sarebbe stata penalizzante per gli jugoslavi. Non se la sentiva. "Ma lei è un notaio. Lei è un custode del regolamento", sbraitò Galliani negli spogliatoi durante la lunga attesa, mentre Evani e Colombo tirarono fuori da un borsone una scacchiera; Baresi no, Baresi si mise a sfogliare una rivista di design e arredamento. Donadoni in un angolo pareva che pregasse. Qualcuno è sicuro di avergli sentito dire, Fa' che la partita sia sospesa. Si sarebbe detto un ingovernabile casino, se non fosse arrivata una telefonata del presidente Berlusconi da Milano, dov'era rimasto per una grana scoppiata su certi affari delle sue tv. Al centralino dello stadio si fece passare Sacchi. "Arrigo", gli chiese, "ma quel Savicevic le piace?". Sacchi obiettò che non gli pareva il momento, senza immaginare che altri momenti per lui non sarebbero arrivati.
Una volta rientrati in Italia, ma con ventiquattr'ore di ritardo perché l'aeroporto - quello sì - era stato chiuso per nebbia e diverse migliaia di tifosi avevano forzato le porte dell'albergo della squadra pretendendo di dormire lì come forma di risarcimento per la sconfitta e per l'eliminazione - una volta rientrati in Italia Sacchi scoprì d'avere più contestatori finanche di De Mita, presidente del Consiglio e segretario del partito, un doppio ruolo che la Dc mal sopportava. Al povero Arrigo i giornali rimproveravano di aver spremuto i giocatori usando sempre gli stessi, salvo fargli una colpa dell'esatto opposto la settimana dopo: troppi cambi, squadra stravolta. I tifosi allo stadio trovavano buona ogni occasione per invocare il ritorno di Capello. Lo scudetto vinto solo pochi mesi prima a Napoli appariva un accidente lontano - e oggi dopo tutto questo tempo si può finalmente dire con certezza - un titolo afferrato quasi per caso. Finché l'otto gennaio, sessanta giorni dopo Belgrado, il Milan cadde pure a Cesena, sul campo della penultima in classifica, uno a zero, gol di Holmqvist, uno che nelle prime undici partite non l'aveva ancora messa dentro, fino a meritarsi il sospetto d'essere un bidone. Svedese ma bidone. E invece no. Gol. Con la squadra scivolata al settimo posto, a dieci punti dall'Inter capolista, senza più la Coppa dei Campioni da giocare, Berlusconi fu preso da tormenti nuovi. Del resto appariva ormai evidente: Sacchi era stato un azzardo. Una scommessa persa. Il presidente sorrise al popolo e disse che Sacchi al Milan non era stata un'idea sua, ma promise che avrebbe ripreso presto in mano la situazione. Capello era un'ipotesi, certo. Ma anche Udo Lattek, César Luis Menotti, oppure Luis Aragonés. Il proposito di fare un grande Milan, annunciò scendendo dall'elicottero, non sarebbe cambiato con l'esonero di Sacchi. Arrigo tornò a casa, staccò il telefono ed esagerò con la fantasia. Pensò che se l'arbitro avesse avuto il coraggio di sospendere la partita, diamine, lui quella partita il giorno dopo l'avrebbe ribaltata, a costo di buttare dentro i ragazzini: Mannari e Costacurta. Si sarebbe dovuto rigiocare daccapo, partendo dallo 0-0, e lui ne era sicuro: il Milan ce l'avrebbe fatta. La raccontò proprio così a un giornale locale uscendo dal suo isolamento, anzi la raccontò addirittura meglio, da visionario, alla Fellini, aggiungendo che nessuno poteva aveva la controprova di come sarebbe finita. Magari, chi lo sa, il Milan quella Coppa dei Campioni l'avrebbe addirittura vinta. E poi l'Intercontinentale. E poi la Coppa successiva. Magari, ragionò, il suo calcio offensivo col tempo si sarebbe imposto, quel tempo che invece la nebbia di Belgrado gli aveva tolto: catenaccio libero e marcatura a uomo sarebbero stati spazzati via. Sicuro. Sicurissimo. L'intervista ebbe un'eco nazionale. Trapattoni la lesse come un affronto personale e rispose con una frase che metteva insieme un gatto, un sacco, bo', non si capì. Il c.t. Vicini fece notare che la nazionale con quei metodi tanto denigrati aveva divertito agli Europei. Gianni Brera chiuse i conti e scrisse: "Pur annacquando via via il suo truogolo zonagro, Righetto non ha resistito alla tentazione di segnalare gli italianisti per trapassati autentici. La posizione di Sacchi è tale da irridere all'indole e alla storia del calciatore italiano. Con quella squadra, azionata su ritmi meno demenziali, allora lui avrebbe dovuto vincere di più".
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