venerdì 6 novembre 2015

La nebbia mise fine al Milan di Sacchi

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Il primo ad accorgersene fu forse il portiere di riserva. "Mister, fra un minuto o due non si vedrà più nulla". Del resto un portiere di riserva ha sempre lo sguardo un po' più lungo. Deve saper scorgere l'occasione che passa. "Se prima era densa, tra un po' la nebbia sarà fitta". Con la schiena curva in avanti, stretto nella tuta, le mani sotto il mento, il numero dodici sfoggiò tutta la sua competenza sulla condensazione del vapore acqueo. "Mister, lei sapeva che la città europea con più giorni di nebbia dopo Milano è Roma?".

Il mister non lo sapeva e manco stava a sentirlo. "Dopo Roma c'è Zurigo". Intensi-intensi, si stava sgolando dalla panchina. "Dopo Zurigo viene Amsterdam". Come se l’intensità su un campo poi possa bastare. "Dopo Amsterdam, Copenhagen". Come se un grido - in genere - possa bastare. "E dopo Copenhagen, Praga. Praga insieme con Francoforte".

sliding  Aveva ragione Pinato Davide da Monza, 22 anni, riserva di Giovanni Galli - giacché fu lui che forse parlò per primo. In due minuti la nebbia era diventata fitta. "Ma della nebbia a Belgrado non avevo sentito mai parlare". Invece era lì, come pellicola trasparente intorno a una notte che per il Milan si stava complicando. Prima che la panchina intera venisse a conoscenza che nella lista delle dieci città con più foschia appare pure Lisbona, si sentì un fischio arrivare dall'altra parte del campo; e nel tempo che passa dal domandarsi cosa sia accaduto a quello in cui qualcuno ti avverte, la panchina si trovò di fronte Mauro Tassotti e una faccia di chi porta cattive notizie. "Mister, siamo rimasti in dieci". Espulso Virdis. Solo che il cartellino rosso non l'aveva visto nessuno, e nemmeno il fallo. "Che ha fatto Virdis?". "Ha dato una spallata a uno, a stento c'era il giallo". Ma il guardalinee era lì. Aveva visto lui. E tanto bastava. Fu in quell'istante che Arrigo Sacchi si alzò un'ultima volta prima di arrendersi. Dopo nove anni, il calcio-scommesse e due retrocessioni in serie B, il Milan era tornato in Coppa dei Campioni e adesso già ne usciva: 1-1 con la Stella Rossa a San Siro all'andata, ora sotto di un gol al Marakana di Belgrado e con un uomo in meno. La voglia di gridare intensi-intensi a quel punto ti passa. Sacchi si risedette e considerò su che cosa potesse fare ancora affidamento. Il campo era gelato, anche se così non era parso per Stojkovic e Savicevic, abili pattinatori e artisti del pallone: una partita giocata su una lastra, mentre il Milan diventava una lamella sfogliata. Stojkovic se ne era stato spesso a destra, per convincere Maldini a non farsi venire strani pensieri. Rijkaard, schierato stopper, anzi come diceva Sacchi da difensore centrale, aveva finanche dovuto sopportare un tunnel. Mentre Donadoni era arrivato sul fondo una volta appena. Nessuna via d'uscita. Restava una strada sola. Affidarsi alla nebbia. I dirigenti del Milan cominciarono a sbracciarsi. "Non si vede a dieci metri, non ci sono le condizioni per andare avanti". Senza considerare che proprio per via della nebbia l'arbitro non li distingueva dai raccattapalle. Allora misero un piede in campo, e subito dopo anche più d'uno, chiedendo che la partita fosse fermata. Il tedesco col fischietto prese prima il pallone tra le mani e poi una decisione. "Voglio fare una telefonata". Come quelli che nei film finiscono al commissariato. Quasi tutti lo guardarono storto, ovviamente i più vicini, gli altri neppure lo avevano individuato in mezzo a quell'alone grigio. Pauli, così si chiamava l'arbitro, si fece mettere in contatto con la stazione meteo di Belgrado. "Allora. Laggiù. Che previsioni avete?". Mezz'ora e la nebbia va via, si sentì rispondere. È su questi particolari che fioriscono i cliché. Se a un tedesco gli dici mezz'ora, il tedesco mezz'ora aspetta. E Pauli, teutonico, aspettò. "Attendiamo che vada via e poi riprendiamo". Il Milan si infuriò. "Non si può", eccepirono, "questa cosa è irregolare". Impassibile, l'arbitro fece notare che una sospensione sarebbe stata penalizzante per gli jugoslavi. Non se la sentiva. "Ma lei è un notaio. Lei è un custode del regolamento", sbraitò Galliani negli spogliatoi durante la lunga attesa, mentre Evani e Colombo tirarono fuori da un borsone una scacchiera; Baresi no, Baresi si mise a sfogliare una rivista di design e arredamento. Donadoni in un angolo pareva che pregasse. Qualcuno è sicuro di avergli sentito dire, Fa' che la partita sia sospesa. Si sarebbe detto un ingovernabile casino, se non fosse arrivata una telefonata del presidente Berlusconi da Milano, dov'era rimasto per una grana scoppiata su certi affari delle sue tv. Al centralino dello stadio si fece passare Sacchi. "Arrigo", gli chiese, "ma quel Savicevic le piace?". Sacchi obiettò che non gli pareva il momento, senza immaginare che altri momenti per lui non sarebbero arrivati.



Una volta rientrati in Italia, ma con ventiquattr'ore di ritardo perché l'aeroporto - quello sì - era stato chiuso per nebbia e diverse migliaia di tifosi avevano forzato le porte dell'albergo della squadra pretendendo di dormire lì come forma di risarcimento per la sconfitta e per l'eliminazione - una volta rientrati in Italia Sacchi scoprì d'avere più contestatori finanche di De Mita, presidente del Consiglio e segretario del partito, un doppio ruolo che la Dc mal sopportava. Al povero Arrigo i giornali rimproveravano di aver spremuto i giocatori usando sempre gli stessi, salvo fargli una colpa dell'esatto opposto la settimana dopo: troppi cambi, squadra stravolta. I tifosi allo stadio trovavano buona ogni occasione per invocare il ritorno di Capello. Lo scudetto vinto solo pochi mesi prima a Napoli appariva un accidente lontano - e oggi dopo tutto questo tempo si può finalmente dire con certezza - un titolo afferrato quasi per caso. Finché l'otto gennaio, sessanta giorni dopo Belgrado, il Milan cadde pure a Cesena, sul campo della penultima in classifica, uno a zero, gol di Holmqvist, uno che nelle prime undici partite non l'aveva ancora messa dentro, fino a meritarsi il sospetto d'essere un bidone. Svedese ma bidone. E invece no. Gol. Con la squadra scivolata al settimo posto, a dieci punti dall'Inter capolista, senza più la Coppa dei Campioni da giocare, Berlusconi fu preso da tormenti nuovi. Del resto appariva ormai evidente: Sacchi era stato un azzardo. Una scommessa persa. Il presidente sorrise al popolo e disse che Sacchi al Milan non era stata un'idea sua, ma promise che avrebbe ripreso presto in mano la situazione. Capello era un'ipotesi, certo. Ma anche Udo Lattek, César Luis Menotti, oppure Luis Aragonés. Il proposito di fare un grande Milan, annunciò scendendo dall'elicottero, non sarebbe cambiato con l'esonero di Sacchi. Arrigo tornò a casa, staccò il telefono ed esagerò con la fantasia. Pensò che se l'arbitro avesse avuto il coraggio di sospendere la partita, diamine, lui quella partita il giorno dopo l'avrebbe ribaltata, a costo di buttare dentro i ragazzini: Mannari e Costacurta. Si sarebbe dovuto rigiocare daccapo, partendo dallo 0-0, e lui ne era sicuro: il Milan ce l'avrebbe fatta. La raccontò proprio così a un giornale locale uscendo dal suo isolamento, anzi la raccontò addirittura meglio, da visionario, alla Fellini, aggiungendo che nessuno poteva aveva la controprova di come sarebbe finita. Magari, chi lo sa, il Milan quella Coppa dei Campioni l'avrebbe addirittura vinta. E poi l'Intercontinentale. E poi la Coppa successiva. Magari, ragionò, il suo calcio offensivo col tempo si sarebbe imposto, quel tempo che invece la nebbia di Belgrado gli aveva tolto: catenaccio libero e marcatura a uomo sarebbero stati spazzati via. Sicuro. Sicurissimo. L'intervista ebbe un'eco nazionale. Trapattoni la lesse come un affronto personale e rispose con una frase che metteva insieme un gatto, un sacco, bo', non si capì. Il c.t. Vicini fece notare che la nazionale con quei metodi tanto denigrati aveva divertito agli Europei. Gianni Brera chiuse i conti e scrisse: "Pur annacquando via via il suo truogolo zonagro, Righetto non ha resistito alla tentazione di segnalare gli italianisti per trapassati autentici. La posizione di Sacchi è tale da irridere all'indole e alla storia del calciatore italiano. Con quella squadra, azionata su ritmi meno demenziali, allora lui avrebbe dovuto vincere di più".

Biagioni, Maiellaro e Carbone: vincitori del Pallone d'oro dal '94 al '96
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Per questi e altri motivi l'ex allenatore del Milan in tutti questi anni non ha voluto più saperne di tornare sulla storia. Semplicemente: non ne ha parlato più. Neppure quando sono stati i suoi vecchi giocatori a chiamarlo in causa. Gullit, che nella primavera del '91 ha vinto lo scudetto con la maglia della Samp: "Aver cambiato metodi mi ha fatto bene". Baresi e Costacurta, campioni del mondo nel '94 negli Stati Uniti con la nazionale di Cesare Maldini: "Non siamo poveri di cultura calcistica, l'1-0 al Brasile in finale dice che la lezione di Bearzot è ancora attuale". Claudio Borghi, dal River Plate dov'era finito: "Con me sarebbe andata in altro modo. La sua presunzione è stata punita". Sacchi non ha risposto nemmeno quando Oberdan Biagioni, Pietro Maiellaro e Benny Carbone, i tre italiani vincitori del Pallone d'oro per tre anni di fila, confessarono a France Football che la loro esplosione era dovuta al tramonto di certe ideologie e certi integralismi da cui i numeri dieci erano stati discriminati. Quando Berlusconi bruciò la Juve e convinse l'allenatore del Napoli a firmare, comprandogli Batistuta Zola Ferrara Nesta e Marchegiani, pochi immaginavano che Marcello Lippi sarebbe riuscito a riportare la Coppa dei Campioni in Italia dieci anni dopo la Juve di Platini, aprendo un ciclo e spingendo l'Uefa a proclamare il suo Milan squadra più forte di sempre davanti all'Ajax di Cruyff.

La festa del 2003 per il Fusignano
La festa del 2003 per il Fusignano
 Non ha mai più parlato di Belgrado, Sacchi, perché nessuno è più andato a chiederglielo, ma oggi 7 giugno 2003, dopo quindici anni, dal mucchio dei microfoni puntati sotto la bocca, mentre i suoi calciatori ancora lo lanciano in aria, e poi lo abbracciano, e festeggiano bevendo bichiér d'arancèda, la domanda più temuta alla fine è spuntata. Come uscita da un film di Sergio Leone. "Mister, quanto ha pensato a Belgrado in tutto questo tempo?". Pare sia stato l'inviato Mediaset a darsi coraggio, facendosi largo fra banchetti su cui avevano apparecchiato furmài, e' agnèl, cunìi, 'e cudghìn. Gli acrobati assoldati per intrattenere la folla si sono messi a camminare su un filo teso fra due cabine di legno, sospesi sul mare, in mezzo a tanto scaramàz. Un imbrièg ha gridato d'aver visto passare il Guerrin Meschino, tutti hanno riso, e allora il macc-lèr ha dato un altro colpo al pezzo di filèt. Sacchi si è sfilato le lenti scure, lo stesso modello che portava all'epoca. Nel momento della gioia ha ripensato ai suoi quindici anni di solitudine, alla sua esperienza senza eredi e alla persuasione di essere sempre stato comunque sulla strada giusta. Un maestro inascoltato. Ha abbozzato un mezzo sorriso e con un colpetto di tosse si è schiarito la voce, lasciando intendere che avrebbe risposto, stavolta sì, del resto è arrivato per lui il giorno giusto. Ha acconciato le vocali secondo le regole di pronuncia del suo dialetto e ha sorriso di nuovo: "Non importa quanto ho pensato a Belgrado in tutto questo tempo. Oggi penso sia più giusto fare i complimenti ai miei ragazzi per questa storica promozione del Fusignano in serie A".

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