martedì 10 novembre 2015

Il mito dell'attaccamento alla maglia

Insigne in lacrime dopo la sconfitta nella finale dell'Europeo Under 21 nel 2013
Insigne in lacrime dopo la sconfitta nella finale
dell'Europeo Under 21 nel 2013
 Nel tentativo di spiegare l’esclusione dai convocati di Insigne e Berardi come una scelta tecnica, Antonio Conte ha messo al centro della scena uno dei grandi totem del populismo calcistico. L’attaccamento alla maglia.
Del resto è un argomento che sa scatenare il boato della folla. L’attaccamento alla maglia è quel sistema di valori (magari un giorno andrà messo a punto per bene) a cui in genere fanno riferimento le curve, peraltro a volte con metodi foschi. L’attaccamento alla maglia però non è un parametro tecnico, rientra nella sfera dei sentimenti. In un gruppo di lavoro, in un mondo super professionistico, dovrebbero invece essere le regole a guidare i processi, e non i sentimenti. Se qualcuno sbaglia viene punito. Alla luce del sole. In questo mondo ideale fatto di regole, un ct avrebbe tutto il diritto di prendere un provvedimento disciplinare. Nessuno potrebbe contestare nulla a Conte se davanti a un microfono dicesse: “Li ho puniti perché l’altra volta lasciarono il ritiro”.



Conte invece non lo fa. Forse perché non c’è stata alcuna violazione di regole, o forse perché regole non ce ne sono. Se Insigne e Berardi un mese fa erano in condizioni fisiche tali da reggere l’impegno con la nazionale, non si capisce perché il medico gli abbia concesso il riposo. Sempre un mese fa, di fronte a uno Dzeko che a Roma non giocava per infortunio, la Bosnia ha preteso che il suo centravanti si presentasse comunque in ritiro, e che là rimanesse. Il club è italiano, come italiani sono i club di Insigne e Berardi. Evidentemente la Federcalcio di Bosnia ha un potere che quella di Tavecchio non ha. La cosa si è ingarbugliata strada facendo. Il 10 ottobre, quando Berardi e Insigne lasciano Coverciano, Conte dice: “Devo avere fiducia nei giocatori, che sono professionisti: se mi dicono che non stanno bene, devo credergli”. Il garantismo evapora nel giro di poche ore, quando i giornali riportano i primi retroscena che riferiscono di un ct irritato, indispettito con i due. Spunta anche qualche riferimento a Balotelli, a sua volta ammalatosi alla vigilia delle convocazioni. Ironia e sospetti: fatto sta che da allora Balotelli non gioca. Giocano invece la partita successiva in campionato sia Berardi sia Insigne. Fanno anche gol. Come fargliene una colpa? Intanto sono passati cinque giorni dal martedì in cui sarebbe dovuta andare in campo l’Italia e più di una settimana dal loro rientro a casa. E’ difficile immaginare che la nazionale pretendesse che i due non si curassero. O meglio: che i club che li pagano non li curassero. Non dovevano? La Figc scriva allora una regola in base alla quale chi lascia il ritiro della nazionale non può essere impiegato nella gara successiva di campionato. Ne ha la forza? Sarebbe legittimo? Se tutto questo non sta in piedi, allora l’esclusione di Berardi e Insigne è un puntiglio da sergente di ferro. La scelta tecnica è un’altra cosa. La scelta tecnica si basa sulle qualità che esprime il campo. L’attaccamento alla maglia è un terreno sdrucciolevole. Viene da chiedersi a quale pressione questi ragazzi debbano provare a resistere: se a quella dei club che chiedono attaccamento alla maglia che garantisce lo stipendio, o a quella della nazionale come piacerebbe a Conte, il quale da allenatore di club non aveva dubbi sulla risposta. Gli interessi dei due mondi, come è palese e come sanno tutti gli ultimi ct, sono in opposizione. Viene da chiedersi a quante maglie siano obbligati a restare attaccati con trasporto questi ventenni allevati sin da piccoli dal loro stesso mondo – dirigenti, allenatori, procuratori - a non avere un’opinione personale, a non esprimerla, a non farla pesare, neppure se uno gli domanda in quale ruolo si sentono più a loro agio. In genere sono quasi tutte “domande che bisogna fare al mister”. L'esclusione dei giocatori dalla nazionale non fa alcun danno alla vera controparte della Federcalcio: i club. Anzi. Così, mentre il Guerin Sportivo dedica questo mese la copertina a Insigne, uno dei giocatori più fantasiosi del calcio italiano, cresciuto sul piano tattico nei due anni di Benitez e nel mezzo anno di Sarri, Insigne rimane a casa. Vale la pena ricordare gli eventi che lo riguardano: la sera del 4 ottobre, durante Milan-Napoli, il giocatore prende in diretta tv, con replay e contro-replay, una botta al ginocchio operato un anno fa. Insigne non si tira indietro in quel momento lì. Il giorno dopo è regolarmente a Coverciano, dove si allena con il resto del gruppo. Al termine dell’allenamento del lunedì gli si gonfia il ginocchio e il medico della nazionale Enrico Castellacci (a sette mesi dallo sconcertante caso Marchisio, presente oggi fra i convocati) gli estrae del liquido. Solo a quel punto Insigne resta a riposo e poi torna a casa. La domanda è: un calciatore della nazionale può prescriversi da solo il riposo e il ritorno a casa? È rischioso fondare le scelte sull’attaccamento alla maglia. Da qualche parte per esempio potrebbe esserci un attaccante più scarso ma più legato all’azzurro di quanto sia Eder, che è italiano per via di un bisnonno scovato in qualche modo in Veneto. “Ho letto che Dunga mi stava osservando: qualcuno ha detto ai miei agenti che il Brasile mi teneva d’occhio, ma non volevo aspettare e ho scelto l’Italia”, così spiegò il suo attaccamento alla maglia Eder. Se in campo deve entrare il sentimento popolare, non si può fare a meno di notare che negli ultimi cinque anni la nazionale ha scelto di giocare undici amichevoli all’estero, in campo neutro, preferendo robusti cachet di partecipazione a una partita in uno stadio italiano: Italia-Camerun a Montecarlo, Italia-Messico in Belgio, Italia-Costa d’Avorio in Inghilterra, Italia-Romania in Austria, Italia-Irlanda in Belgio; Italia-Russia, Italia-Brasile e Italia-Inghilterra in Svizzera, ma Italia-Nigeria e di nuovo Italia-Irlanda in Inghilterra, mentre Italia-Portogallo ancora in Svizzera. Negli ultimi dieci anni insomma l’Italia dell'attaccamento alla maglia ha scelto di giocare più partite all’estero che a Napoli (dove peraltro non ha portato Brasile e Inghilterra, ma Lituania e Armenia), più in Svizzera che a Bologna (dove c’è stato San Marino e martedì la Romania). A Catania, la decima città di questo Paese, aspettano la nazionale da 13 anni, lo stesso a Trieste, a Padova e a Cagliari l’attesa dura da dieci, a Taranto da ventisei. Colpa degli stadi, magari si dirà. Ma a Verona (stadio Bentegodi, due squadre in serie A) la Federcalcio non porta l’Italia dal 1989. E’ pericoloso buttarla sui sentimenti. C'è meno rischio a parlare di regole.

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