giovedì 5 novembre 2015

Il paradosso di Dzeko

dzekopar
Neppure tre mesi dopo le grandi celebrazioni estive per l'accoglienza dei veri nove, la Juve ancora non ha visto il Mandzukic che s'aspettava e la Roma forse mai vedrà Džeko come lo immaginava. Il gol al Bayer Leverkusen ha persino confermato il sospetto cresciuto nei giorni in cui il gol non veniva: un vero nove a questa Roma probabilmente non serve. Non in questo momento, almeno, se è vero che il più lungo digiuno di Džeko dal 2008 in poi è stato interrotto con un contropiede. Uno shock niente male per uno atteso come Pruzzo-trenta-anni-dopo.
Accolto con un entusiasmo superiore ai quattro gol segnati nella stagione scorsa, alle soglie ormai dei trent'anni (li compirà il prossimo marzo), con il suo gol alla Juve Džeko si è divertito a confonderci un altro po'. Aveva solo firmato un ultimo inganno. Segnando in quella maniera stava offrendo un'eccezione, invece è stata scambiata per un'impossibile innovazione. In questi due anni e spiccioli di Garcia, la Roma ha funzionato meglio quando si è alimentata di stupore. Quando ha sottratto riferimenti. Quando cioè si è inventata anomalie: dalla prima scintilla dei tre registi interscambiabili, all'universalità di Florenzi, al tanto calcio fuori catalogo di cui è portatore Pjanic. In questo senso, un vero nove in un'architettura del genere non c'entra niente. La Roma è condannata a giocare sopra ritmo per non perdersi, per non emarginare la maggior parte dei suoi corridori. La Roma fa la Roma quando gioca senza accenti. Gli accenti sono pause, mentre Garcia non può permettersi un calcio proclitico, che si appoggi su chi sta davanti, senza concedere uomini agli avversari. Una Roma che si riversa in massa a ridosso dei venti metri per cercare un solo uomo diventa una Roma statica, e dunque una non-Roma. Perciò, contro le difese chiuse, Gervinho è uno sfondatore più efficace di Džeko, ovviamente con strumenti diversi, con la velocità e partendo di fianco: d'altra parte lo sport, non solo il calcio, va in questa direzione: nella costruzione di nuovi atipici, di nuove diversità che sappiano superare le antiche specializzazioni. Se la costruzione del gioco è affidata agli strappi in profondità di Salah e Gervinho, di un vero nove che giochi da vero nove non sai cosa fartene. Poi magari le cose cambieranno, in un altro momento o con un altro allenatore. Ma per ora i palloni toccati in media in una partita da Džeko a Roma restano in numero inferiore rispetto a quelli che giocava a Manchester. La Roma dà spesso l'idea di utilizzare marce alte che Džeko non supporta. Ma quando le scala, danneggia il motore della squadra. Inserire Džeko allora non può significare: ridisegnargli la Roma intorno, come molti chiedono a Garcia. Inserire Džeko in una squadra come questa, alla quale si diceva mancasse un vero uomo-gol, significa accettare un paradosso. Accettare che il proprio centravanti non sia venuto a fare il capocannoniere: fin qui infatti sono più gli assist (tre) che i gol (due). Forse solo in certe partite della nazionale Džeko gioca un calcio primitivo. Per il resto è un centravanti di sponde, cresciuto dentro meccanismi complessi e raffinati (al City, e prima ancora al Wolfsburg); non è mai stato solo un insieme di centimetri in attesa di un cross buono, non è un coltivatore di egoismo. In un corpo da centrattacco Džeko è il più falso tra i veri nove. Il paradosso da accettare perché la Roma funzioni è avere un vero nove e vederlo giocare da falso, è aver preso Džeko per chiedergli di giocare come l'ultimo Totti.

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