
Quando partimmo per il mondiale del '58 in Svezia, intorno a noi la gente urlava Somos los mejores, siamo i migliori del mondo. E aveva ragione, la gente. Noi argentini avevamo battuto il Brasile l'anno prima. Campioni del Sudamerica. Noi. In tutto il torneo: 9 gol di Maschio, 8 di Angelillo, Sivori miglior calciatore. I più forti. Noi. Ma era successa una cosa in quel '57: dopo la festa, in Argentina s'erano presentati gli italiani. Arrivò la Juventus con 10 milioni di pesetas e si portò via Omar Sivori, 21 anni. Il River Plate, dove giocavo anch'io, dopo averlo venduto non ha più vinto fino al '75. Omar era nel trio della nazionale con la cara sucia, la faccia sporca, Maschio Angelillo e Sivori. Arrivò pure l'Inter e si portò via Angelillo, 20 anni. Arrivò il Bologna e si portò via Maschio, che era il più vecchio dei tre e ne aveva 24. Capite cosa saremmo stati? Io in porta, loro tre davanti. Che Argentina. Gli italiani ce li rubarono un anno prima dei mondiali. La federazione provò a resistere. Minacciò di lasciarli fuori dalla nazionale, alla fine lo fece. Andammo così in Svezia. Io in porta, loro a casa. E' inutile che vi dica come finì. Ne prendemmo tre dalla Germania Ovest e sei dalla Cecoslovacchia. Non ve lo racconto. Ma vi racconto come sarebbe finita con i tre angeli in campo. In Svezia nel '58 avremmo vinto noi. Mica il Brasile. La stella sarebbe stata Omar. La favola di Pelé non sarebbe cominciata. Sicuramente non quell'anno. E neppure nel '62 perché si fece male. E neppure nel '66 perché non vinsero. Avrebbero vinto nel '70? Chi lo sa. Forse. Ma Pelé non sarebbe stato questo Pelé. E oggi non ci sarebbe nessuno ancora convinto che sia più grande di Maradona, dio mio che enorme sciocchezza. Tutta colpa degli italiani. Della Juve, dell'Inter e del Bologna.
Finché ho giocato a calcio, mi sono sentito invulnerabile. Ho smesso e avevo sempre qualcosa. Un'aritmia, la vescica, l'ernia, l'artrite, la prostata. Per fortuna che c'è il vino, un bicchiere fa star bene. E se il bicchiere manca, va bene anche un fiasco. Ne bevevo sempre un sorso anche quando giocavo, adesso mai, mai prima di salire in bici o in moto, voglio dire. Certo, sono salito in moto anche oltre gli 80 anni. Tranquilli, con il casco. Mio padre era di Rafaela. Lavorava in ferrovia. Prima come passalegna, poi fuochista, alla fine macchinista. Certi giorni mi portava con lui, apriva lo sportellino per farmi guardare il fuoco, si divertiva a mettere due uova lì dentro e frrrr, in un istante tutto pronto. Come figlio di ferroviere, avrei avuto la precedenza sugli altri, se avessi voluto fare quel lavoro. Ma a 18 anni il River Plate mi aveva già chiamato. Hector Berra era stato un grande atleta del River negli anni '30. Era di Rufino, la mia città, lavorava con mio padre. Fu lui a segnalarmi al mitico Carlos Peucelle che mi convocò per un provino. Ricordo che feci il viaggio in treno di notte, 430 chilometri in 15 ore, fino a Buenos Aires. Al campo eravamo qualcosa come duemila ragazzini, tutti con lo stesso sogno. Pensai che mi avrebbero cacciato a calci nel sedere. Invece andò tutto bene. Mi dissero, Bueno, ragazzo, di' a tuo padre che rimani qua. E come? Noi a casa non avevamo il telefono. Feci avvertire un tipo, don Miguel, mio padre lo seppe da lui.

Se sono quel che sono, un po' lo devo all'italiano che mi regalò i primi guanti. Giovanni Viola, il portiere della Juve. Li portava durante un'amichevole. Gli chiesi: come ti trovi? Benissimo, prova. E me ne regalò un paio. In Argentina non ce n'erano. Mi vergognavo. La prima volta li nascosi nel pantaloncino e li infilai soltanto in campo, sperando che nessuno se ne accorgesse. A volte penso che el Congreso de la Nación dovrebbe istituire la festa del portiere. Così come esistono la festa del papà e la festa della mamma. Sì, dovrebbero cercare una data per la festa del portiere. Meglio il 12 giugno. Il mio compleanno.
(Come per tutta la serie, parole e pensieri liberamente attribuiti a Carrizo sono tratti da interviste, articoli e libri)
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