Cosa direi oggi se fossi sindaco di Napoli
Sono molto turbato da quello che è successo al quartiere Sanità. Ma dimenticate la frase che ho appena detto. Cancellatela. Perché non conta nulla e non serve a nessuno. Non posso permettermi di cavarmela così. Nessuno di noi dentro le istituzioni può permetterselo. La storia del piccolo Elvis e di sua madre è uno di quei drammi familiari che privati non sono, e che non possiamo trattare come tale. E' un dramma doppio, triplo, non lo so. Dramma della povertà, dell'immigrazione, della solidarietà. Temi che sono politici, e che la politica non può trattare così, commuovendosi, nascondendo gli occhi dietro lenti scure. Né può fingere di relegarli nell'angolo delle vicende su cui non si ha potere.
Quando non ero ancora sindaco, mi dava molto fastidio, dopo tragedie di questo genere, ascoltare le dichiarazioni di chi prometteva impegni e rimedi. Mi ponevo allora una domanda che oggi è giusto tutti voi poniate a me: se è vero che da domani la politica si impegnerà perché un episodio simile non accada più, perché non è riuscita a impegnarsi ieri affinché non accadesse? Oggi perciò non prometto nulla del genere. Oggi imploro solo il perdono dei familiari di Elvis e vivo nel dolore con la nostra comunità. Se anche fosse vero, sarebbe meschino che io mi sentissi estraneo a quanto accaduto. Questa storia lascia una macchia sul mio percorso di amministratore e la trasformerò in un'ossessione per il prosieguo del mio mandato: per ridurre la distanza che esiste a Napoli fra due città, quella dei garantiti e quella dei diseredati. Giuro che da sindaco non userò mai più il nome di Elvis, magari per annunciare iniziative che, se fossero state già in campo, avrebbero potuto salvargli la vita. Quanto a me come padre, non potrò non vedere la sua faccia in tutti i bambini di questa città.
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