mercoledì 27 gennaio 2016

I gol inattesi alla Scala del calcio


RACCONTANO che Nereo Rocco fosse il più contrariato di tutti, finché qualcuno nello spogliatoio del Milan sbottò: «Adesso facciamo segnare anche i ciclisti». Il Mantova aveva appena vinto a San Siro, gol a tre minuti dalla fine di Franco Panizza, nulla a che vedere con Wladimiro, il quale peraltro nel ‘71 neppure era ancora il campione avrebbe sfiorato il podio al Tour. D’una facile gag sui cognomi si trattava, serviva a marcare il solco fra la sacralità del palcoscenico e l’improbabilità del protagonista.
cavese  Come quando Antonio Scannagatti, detto il “cigno di Caianiello” (Totò a colori), si presenta per dirigere la mòseca alla Scala, o come stavolta crediamo di poter fare di nuovo con Lasagna, l’ultimo a iscriversi su un campo di calcio all’albo degli inattesi. Del resto siamo a San Siro. Se è vero che questa è la Scala del calcio, per forza fra i tenori ogni tanto s’imbuca un figurante. Il contrasto fra gli opposti garantisce l’armonia del mondo, concetto filosofico del tutto chiaro ai tifosi della Cavese, i quali nel novembre ‘82 si presentarono allo stadio di Milano con lo striscione “Fedelissimi Bar Manna” e tornarono a casa cantando “Glory glory Alleluja”: del gol di Costante Tivelli sotto i portici della città ancora si parla.
Aspetti che esca Falstaff, e sulla scena invece s’affaccia un paggio suo. Fulvio Simonini, trent’anni fa riserva di Cantarutti all’Atalanta, era alla sua prima partita da titolare in serie A contro l’Inter di Zenga e Rummenigge, ma trovò il coraggio per tener salde le gambe e far gol a San Siro [video]. Una doppietta, addirittura. Quando l’arbitro fischiò pure un rigore, Soldà andò a sfilargli il pallone di una possibile tripletta dalle mani. Non esageriamo, ragazzo. Succede. All’Inter per la verità abbastanza spesso, eppure all’imprevedibile non ci si abitua mai. Una volta esce dal cilindro un Pirazzini col Foggia e un’altra Macchi col Cesena. Dentro una presunta comparsa in qualche caso si nasconde una sorpresa. «L’attaccante che mi ha fatto più soffrire in carriera è stato Galuppi»: è la confessione di Claudio Gentile, uno che si sarebbe aggrappato alle maglie di Zico e Maradona per non farseli scappar via. Gian Paolo Galuppi, fantasista per amatori, aveva zittito San Siro col Vicenza nel ‘73. Stesso discorso vale per Rocco Pagano, ispiratore del Pescara di Galeone che nel 1987 fece saltare il banco interista alla prima giornata [video], e indicato come una rogna vera, la più grande mai sperimentata in vita sua, da Paolo Maldini.
In fondo anche Clint Eastwood guida un jet da comparsa in un film del ‘55 e poi diventa quel che diventa. Michele Paramatti gelò San Siro da semisconosciuto [video], venendo da anni di disoccupazione, e poi finì alla Juve. Il gol alla Scala ha acceso spesso i cantori delle curve. “Nella Reggina c’è / un giocatore che / dribbla come Pelè / Possanzini alè alè!”. Il Messina schiaccia il Milan campione d’Europa [video] e dunque “Giampà è meglio di Kakà”. Momenti irripetibili, ma non per tutti. Raimondo Marino, terzinone del Napoli, fece un gol della vittoria contro il Milan (1979) e uno del pareggio al 91’ contro l’Inter (1982, video). Mentre Francesco Gazzaneo sarà di certo da qualche parte a raccontare della sua rete a San Siro [video], l’unica per lui e l’ultima nella storia dell’Avellino in serie A. Questo alla fine succede: Scannagatti torna a casa e resta per sempre “il cigno di Caianiello”.

martedì 26 gennaio 2016

Quando Oriana Fallaci intervistò Rivera


So così poco di sport che per quasi mezz’ora chiamai il calciatore più famoso d’Italia, il divo del pallone, il ragazzo dai piedi d’oro, “signor Rovere” anziché “signor Rivera”. Questo durò fino a quando egli disse tra mortificato e divertito: “Posso… posso dirle una cosa?”. “Ma certo, ma sì”. “Ecco: io… veramente… non mi chiamo Rovere. Mi chiamo Rivera… Gianni Rivera”.
Ne provai ammirazione. Pensate un po’ cosa sarebbe successo se la medesima gaffe l’avessi fatta non so, col signor Mastroianni: chiamandolo non so, signor Castrovanni. Il signor Castrovanni, pardon, Mastroianni si sarebbe offeso fino alle viscere, mi avrebbe cacciato come un re offeso. L’ammirazione per il signor Rovere, pardon Rivera, comunque divenne presto spavento: il solito spavento che mi prende dinanzi ai ventenni senza timidezze o paure, già vecchi prima d’essere adulti. Quei puntini esitanti mentre correggeva il mio errore, infatti, furono i soli che il Gianni mi regalò. Dopo quelli procedé sicuro, diritto, proprio come accade (mi dicono) quando accompagna in porta il pallone e fa gol. Confutò la mia indignazione al fatto che costasse mezzo miliardo o giù di lì, giustificò il suo disinteresse per i libri, sorrise a qualche mia ingenuità: “Ma cosa vogliono queste ragazze che telefonano?”. “Guardi: tutto!”.
Il Gianni parlava con le braccia incrociate sul tavolo dove la famiglia Rivera mangia nelle occasioni importanti. Nella stanza arredata con eleganza operaia c’era solo quel tavolo, una credenza moderna, sei seggiole, un televisore, una poltrona, un divano. Nella poltrona, allungabile, dorme la notte il suo fratellino; nel divano di gommapiuma, ci dorme lui. Appoggiata al muro c’era la mamma, col grembiule da cucina e le mani chiuse sul ventre, gli occhi gelosi e orgogliosi. Le ragazze telefonavano interrompendoci spesso e, quando questo accadeva, gli occhi di mamma Rivera erano un po’ più orgogliosi; quando invece si posavan su di me, erano un po’ più gelosi. Ma cosa voleva questa sconosciuta con le braccia nude e le domande indiscrete? Ma che aveva da rimproverare al suo Gianni? E: “Attento, Gianni” diceva ogni volta che lui si piegava in avanti per spiegarmi qualcosa. Sicché non capivo se la raccomandazione fosse diretta a ciò che il Gianni spiegava o al fatto che il Gianni si piegasse in avanti. Il Gianni, allora, le lanciava uno sguardo furbesco quasi a dir stai tranquilla, so io quel che faccio e che dico. Lo sapeva anche quando portai il discorso sui libri, sulla scuola che egli lasciò nel momento in cui la scuola serve davvero a qualcosa: sedici anni. A sedici anni si incomincia a capire chi era Napoleone e chi era Dante Alighieri, si scopre Dio o l’ateismo, la verità o la retorica; i libri non sono più un bagaglio di noiose nozioni. Ma lui li gettò proprio allora alle ortiche: per non leggerli più. E’ suo padre che gli consiglia o gli ordina di non leggerli più: nemmeno nelle noiosissime ore durante le quali non ha niente da fare.
fallaciriveraIl padre del Gianni fa il ferroviere. Nelle giornate d’inverno, quando il freddo gela le mani ed attaccare un vagone fa dolere le dita fino alle lacrime, non si consola pensando che suo figlio sarà un giorno avvocato o ingegnere, almeno impiegato di banca: si consola pensando che suo figlio è già calciatore, e guadagna un milione per mese, e ci ha la fuoriserie e riceve le lettere come un attore del cinema. E’ stato sempre il sogno di papà Rivera, è il sogno di molti italiani che vivono un’epoca infangata dal Totocalcio, la pubblicità sui mediocri, il successo overnight. Quando io andavo al ginnasio mio padre diceva “Vorrei che tu facessi il medico, da grande” e il fatto che abbandonassi le sale anatomiche per i giornali lo riempì di dolore: quasi le avessi lasciate per far la ballerina o la trapezista. Quando il Gianni andava alle medie suo padre diceva “Vorrei che tu facessi il calciatore, da grande” e il fatto che abbandonasse ragioneria lo riempì di sollievo. Diventar medici, avvocati, ingegneri è quasi sciocchezza per i poveri degli anni Sessanta; legger libri, una distrazione quasi imbecille; diventare ciclisti, calciatori, boxeurs è innalzarsi agli dei. “Mio figlio è in seconda liceo ma gioca bene al pallone” disse il tassista che mi portò da Gianni Rivera; “io glielo dico sempre: che studi a fare? Pensa piuttosto a perfezionare il pallone. Quest’anno, grazie a Dio, lo hanno preso tra i ragazzi del Milan”. Studiare va sempre meno di moda: non c’è la televisione a raccontarci le cose? Né è detto, del resto, che abbiano torto. Attendere è duro quando i genitori e i genitori dei genitori non hanno fatto che attendere e, con la cattedra di letteratura, Salvatore Quasimodo guadagna in un mese quel che Gianni Rivera guadagna in una domenica; a insegnar l’abc in un villaggio, una maestra guadagna in un mese quel che Mina guadagna in un minuto secondo.
[…]
“Lei non ci crederà, lo capisco dal modo in cui mi guarda che non ci crede ma nel nostro mestiere non sono mica le gambe che si stancano di più: è il cervello. Non si gioca mica solo con le gambe, coi piedi: si gioca con la testa, col ragionamento. Se uno è stupido, mi creda, non può diventare un bravo calciatore. Allora che accade? Accade che fisicamente io recupero presto, perché sono giovane, ma psichicamente ci metto moltissimo a recuperare. Accade che quando torno da un allenamento o da una partita mi provo a leggere: mi metto lì e dico ora non mi muovo e leggo. Ma il mio cervello va altrove. Volevo imparare almeno le lingue, mi ero comprato perfino il linguaphone: non ce l’ho fatta. Ma cosa vuole: di giornate libere noi abbiamo solo il lunedì. Dal martedì alla domenica il nostro corpo e il nostro cervello si consumano nell’attesa di quel concentrato di fatica che esploderà la domenica pomeriggio, per un’ora e mezzo. E se si vuol rendere in quell’ora e mezzo bisogna dimenticare qualsiasi altra cosa: lo dice anche mio madre”.
Cosa dice suo padre?
“Mio padre non vuole che studi”.
Suo padre non vuole che studi? Ha detto così?
“Esattamente. Mio padre dice che non si possono fare due cose nel medesimo tempo: e ha ragione. Infatti, quando leggo i giornali il più delle volte finisco col leggere le didascalie sotto le foto”.
Mi pare che suo padre tenga più di lei alla sua carriera di calciatore.
“Sì, in un certo senso sì. E’ stato lui a spingermi, a incitarmi, a incoraggiarmi”.
Capisco. Suo padre cosa fa?
“Fa l’operaio alle ferrovie. Un mestiere molto duro: che rende in modo indirettamente proporzionale alla fatica. E io vorrei che smettesse: tanto, per quei due soldi che guadagna… Ma lui non vuole smettere sebbene dica: ti ho mantenuto fino ad ora, ora potresti anche essere tu a mantenere me. Non può stare senza far nulla e poi non vuol perdere la pensione. Gli mancano cinque anni alla pensione”.
Capisco. Dunque dicevamo che i giornali, bene o male, li legge. E cosa legge sui giornali? I resoconti delle partite di calcio, altre cose?
“Il calcio, mai. Anche quando mi faccio degli amici, cerco sempre di farmeli tra quelli che non parlan di calcio. Leggo le altre cose. La crisi di Cuba, per esempio, l’ho seguita un poco sebbene di politica io non capisca nulla: se avessi dovuto votare, non avrei saputo davvero per chi votare, a sentir loro hanno tutti ragione. Leggo certe rievocazioni. Io, per esempio, sono nato nell’agosto del 1943: il periodo Badoglio. Non so ancora nulla, o quasi nulla, di questo periodo Badoglio, non sono ancora riuscito a capire se avevano ragione i tedeschi o gli inglesi, gli italiani o gli americani, e non che la cosa mi interessi più del necessario: quel che è stato, è stato. Però…”.
Capisco. E il volo di Gordon Cooper l’ha interessato? L’ha seguito sui giornali o alla televisione?
“Sì. Ma non più del necessario, anche quello. Partito il primo, partito il secondo, partito il terzo, non fa più effetto. Andavamo in Inghilterra quando Cooper salì con l’astronave, a Londra mi son preoccupato di sapere se era sceso. Mi hanno detto che era sceso e sono stato contento: non più del necessario, però. Anche il fatto che vadano sulla Luna non mi esalta più del necessario, sento per questo la medesima reazione che sento per ciò che è successo a me: se sono diventato quel che sono è perché sono bravo e in ciò non v’è nulla di fantastico; se vanno sulla Luna è perché è giunto il momento di andare sulla Luna e in ciò non v’è nulla di fantastico. Voglio dire che è inevitabile che debbano andar su: partiti da una bomba che manda in aria una città, non si può arrivare che a quello. Voglio dire che io vivo senza sorpresa l’epoca nella quale vivo: senza urletti di meraviglia. E’ la mia epoca e un’epoca dove può succeder di tutto: andar sulla Luna e…”
… e costare quasi mezzo miliardo: quanto non costerebbe, probabilmente, se fosse in vendita come avviene per un calciatore, un fisico nucleare. E’ un vecchio discorso, lo so: ormai non stupirebbe un neonato. Ma vorrei sapere proprio come giudica, lei, il fatto di costare quasi mezzo miliardo.
“E io lo voglio dire, quello che penso: perché tutti credono che noi calciatori si sia stupidi, teste di legno, zoticoni, che non si capisca nulla perché non abbiamo studiato, e nessuno ci chiede mai seriamente: Ma tu cosa ne pensi? Penso che mi fanno ridere quelli che dicono: Bisogna-moralizzare-il-calcio-e-i-calciatori. I calciatori o il prezzo per cui si comprano e si vendono i calciatori? E poi penso che quel mezzo miliardo o quasi non l’ho mica in tasca io. Ma chi li vede, questi miliardi? Io, no davvero. Io, con tutti questi complimenti di bravura, sono riuscito solo a comprarmi un appartamento e come vede abito ancora in un posto modesto, non ho neppure una camera mia, la notte dormo su quel divano che diventa un letto. Mezzo miliardo! Mezzo miliardo fa in fretta a riempire la bocca. Guardi: mez-zo mi-li-ar-do. Sembra di mangiare una bistecca in un boccone. Solo che io non lo mangio. Il mio stipendio non è quello. Magari guadagnassi quello”.
E quanto guadagna, signor Rivera, ogni mese? Trecentomila? Di più? Quattrocentomila? Di più? Cinquecentomila? Di più? Seicentomila? Di più? Un milione?! Un milione al mese non è poco per un ragazzo di vent’anni, bravo che sia a giocare con un pallone.
“Sì, lo so che cosa pensa. Pensa al fisico nucleare. E’ giusto, pensa, che un fisico nucleare non guadagni quel che guadagna questo zoticone, questa testa di legno che non ha neppure la fora di leggere? E io le rispondo no, non è giusto, ed io lo so come lo sanno quelli che ci portano in trionfo e muoiono di infarto cardiaco perché io fo un gol o non lo faccio. Lo sanno anche loro che noi non siamo Einstein e che in confronto al peggior fisico nucleare siamo niente, ma niente. Però col fisico nucleare essi non si divertono e con noi si divertono. Einstein non giocava a calcio e Pelé gioca a calcio. Il calcio ormai è spettacolo e in questo spettacolo la gente va a vedere chi gioca: chi gioca meglio è giusto che sia pagato meglio. Siamo noi che attiriamo la gente, mica chi sta dietro di noi. E poi tutto è proporzionato agli incassi: se una società incassa un miliardo lordo all’anno, perché i giocatori di quella società devono guadagnare centomila lire al mese? Né il discorso vale solo per le società, vale anche per lo Stato. Ogni settimana lo Stato guadagna mezzo miliardo con il Totocalcio: pensi che scherzo se i calciatori decidessero di far sciopero una domenica o due. E, tutto sommato, perché non dovrebbero fare sciopero? E’ un mestiere”.
Scusi sa, io non me ne intendo: ma credevo che fosse uno sport.
“E’ un mestiere e il fatto che sia un mestiere non nega che sia anche uno sport. Essere pagati non ci rende meno sportivi: ci prepara anzi più coscienziosamente e più scientificamente. Io sono convinto che se potessimo far disputare una partita dalla miglior squadra di oggi e la migliore squadra di trent’anni fa, “quando lo sport era sport”, vincerebbe la squadra di oggi. Io, quando gioco, non giovo per vanagloria, per vedermi citato sui giornali e via dicendo. Gioco perché è il mio mestiere e per la soddisfazione che mi nasce dentro: una specie di coscienza d’aver compiuto un dovere. Io, quando leggo sui giornali che non sono stato bravo, ho quasi vergogna ad uscire per strada, mi sembra che tutti ce l’abbiano con me. Quando leggo che ho giocato male, mi sembra di aver tradito qualcuno: il mestiere per cui vengo pagato. Mi ricordo tre anni fa, quando cascavo sempre per terra. Non avevo ancora diciassette anni, avevo giocato nell’Alessandria che stava per retrocedere e poi avevo giocato alle Olimpiadi: ero così stanco, così stanco, e cascavo per niente. Così i giornalisti scrivevano che ero un bluff, che ero buono soltanto da mettere in giardino, ed io soffrivo: ma non tanto per la figuraccia, per la coscienza di quel tradimento”.
E poi dicono che i giovani d’oggi sono leggerini. Complimenti: ancora una frase e riusciva a commuovermi. Davvero il suo perbenismo è feroce. Mi dica, signor Rivera: come vive, a parte il calcio, un ragazzo così ferocemente perbene?
“Oh, non c’è nulla di drammatico nella mia vita: mi creda.
Non è una vitaccia. Alle dieci e mezzo sono già a letto, alle nove del mattino sono sveglio. La mattina vado al Milan, ci vado a far niente, ma presentarsi è obbligatorio, e poi torno a casa: dove mangio con la mamma e col mio fratellino. Mangio di tutto, non bevo: tutt’al più un po’ di vino annacquato. Nel pomeriggio vado agli allenamenti e la sera ceno di nuovo a casa: la sera c’è anche il babbo che torna alle sei. La domenica mattina vado alla Messa perché sono religioso sebbene non sia bacchettone, e qualche volta vado al cinematografo dove scelgo filmetti leggeri: guardando i nomi degli attori. Qualche volta guardo anche il nome del regista, per esempio ho scoperto uno svedese, Ingmar Bergman, che mi piace tanto. E qualche volta vado anche a vedere i film seri o che chiamano seri. Per esempio ho visto Otto e mezzo che non mi è sembrato il capolavoro che dicono: ma cosa c’è da capire in quel film? Io ci ho capito soltanto che prima di andare a vedere quel film uno deve leggersi la vita del signor Fellini; e la vita del signor Fellini non mi interessa per niente. Spesso poi siamo in ritiro, oh i dannati ritiri!... E più spesso ancora siamo in viaggio: per vedere niente. Io ho girato tutta l’Europa, sono stato in Sud America, e non ho visto nulla né dell’Europa né del Sud America. Appena arrivati ci chiudono in albergo o ci mandano all’allenamento, e appena finita la partita ci fanno ripartite. E’ lo stesso che viaggiare bendati. Comunque non mi rammarico”.

(Oriana Fallaci, Gli antipatici, Rizzoli 1963, Bur Rizzoli 2014)

lunedì 25 gennaio 2016

Lo scudetto del Napoli di Pacileo

E' morto ieri a Napoli, a 84 anni, Giuseppe Pacileo, inviato e prima firma della redazione de Il Mattino, la figura più autorevole del giornalismo sportivo in città per decenni. Spiritoso, ironico, colto, appassionato di letteratura, cinema, melomane, insegnava senza volerlo, senza pretesa di farlo, con semplicità, chiacchierando. Un architetto della curiosità. La costruiva e la trasmetteva. Poteva intrattenersi a discutere della traslitterazione di un nome russo e della posizione in campo di Salvatore Bagni. Ieri molti ricordavano di lui il 3,5 che a Udine un giorno diede in pagella a Maradona. Pacileo apparteneva a una stagione perduta di questo mestiere, fatta di trasmissione del sapere verso i più giovani, di condivisione del tempo al campo con i colleghi, di confronto continuo con i protagonisti, calciatori e allenatori, non ancora rinchiusi nei bunker dei loro campi d'allenamento. Qui sotto trovate un articolo scritto su Ottavio Bianchi, allenatore del Napoli, per l'edizione straordinaria del 10 maggio '87, giorno del primo scudetto. 
***
IL SIGNOR Ottavio Bianchi è persona simpatica, uomo di spirito, disinvolto conversatore, trovandosi fra amici sicuri (che sono pochi) è possibile addirittura che si sbilanci oltre il sorriso. Come chiunque, s'intende, ha pregi e difetti. Come tantissimi, è possibile che consideri pregi i suoi difetti e viceversa.

sabato 23 gennaio 2016

Il gol con le spalle alla porta


Non più tardi di domenica scorsa, un colpo di testa all'indietro di Alberto Paloschi in Chievo-Empoli ci ha restituito su un campo di calcio la bellezza del gesto no-look, molto più naturale in altri ambiti, basket e tennis su tutti. Poi, nella semifinale degli Europei di pallanuoto fra Serbia e Grecia, è arrivato questo signore qua. Si chiama Duško Pijetlović, gioca centravanti e ha segnato un gol che viene da un altro mondo. Il mondo dei gesti nuovi. 
Su un campo di calcio, il gol senza guardare è un'eccezione. Appartiene in particolare a una certa tipologia di calciatori. I rapaci. Quelli che sanno sempre dove si trovano, quelli che là si fanno trovare un attimo prima che ci arrivino gli altri. I Pippo Inzaghi. I Paolo Rossi. [qui c'è l'articolo uscito su Repubblica martedì a proposito del gol di Paloschi]. Hanno la mappa della loro porzione di campo stampata dentro la testa. Nel basket l'assist no-look è diventato un segno di estro e classe da Magic Johnson in avanti. Nel tennis abbiamo conosciuto il colpo sotto le gambe con le spalle alla rete grazie a Ilie Nastase, Yannick Noah lo ha portato in tv, Roger Federer ogni tanto lo ripropone. Ma è la pallanuoto lo sport in cui il gol con le spalle alla porta diventa gesto tecnico da repertorio, nel senso che non è istinto, non è individualismo, ma un colpo che si insegna e si prova in allenamento. Si chiama beduina. Lo ha inventato un giocatore napoletano, Gildo Arena, un campionissimo fra il '38 e il '52, fra qualche giorno saranno 11 anni dalla sua scomparsa. Schiena alla porta, palla a pelo d'acqua, il braccio si muove dal basso verso l'alto. Fu il colpo che aggiunse fantasia alla pallanuoto.
Il serbo Duško Pijetlović
Il serbo Duško Pijetlović
In Serbia-Grecia di mercoledì sera Duško Pijetlović l'ha eseguita con una variante originale. Viene servito a due metri dalla porta, dunque al limite della zona dentro la quale un giocatore senza pallone non può entrare, e ovviamente senza voltarsi arresta e si muove proprio come se volesse rovesciare da manuale. Ha un uomo addosso. Nella pallanuoto il regolamento consente a un difensore di fare qualunque cosa a un avversario finché questi è in possesso di palla. Pijetlović prova a chiudere il movimento, ma qualcosa va storto. Non riesce a tirare verso la porta. Oppure lo fa di proposito. E' perfino più bello crederlo. Di certo trova un piano B che è geniale. Quando s'accorge che non riuscirà più ad avvitare il braccio, lo lascia cadere sull'acqua. La mano persino affonda, e da lì assesta un colpetto morbido alla palla, col polso, con i polpastrelli, mentre nel frattempo su di lui sono diventati tre. Un gol pazzesco (potete vederlo dal minuto 6'00" del video)

giovedì 21 gennaio 2016

Ciao Hewitt, ultimo bimbo prodigio del tennis


Aveva solo cinque minuti di carriera davanti a sé e ancora faceva il pugnetto a mezz’aria. Lleyton Hewitt è stato Hewitt fino alla fine. Ha messo da parte l’ultimo game, l’ultimo C’mon e dopo un rovescio lungolinea mandato in corridoio sono partiti i saluti, i titoli di coda. Il tennis va così. Finisci sempre per lasciare dopo una sconfitta, a meno che tu non sia Sampras, o Flavia Pennetta. Hewitt ha vinto due titoli di Slam e per due anni è stato il numero uno, anche se pare un’epoca fa, perché davvero era un’epoca fa, quando si presentò sui campi con la sua allergia, già pronto per un titolo, ed era sedicenne. E' stato l’ultimo bambino precoce del tennis mondiale, numero uno quando di anni ne aveva appena venti, il più giovane di sempre, prima che questo sport si votasse definitivamente alla longevità. Come precoce è stato il suo tramonto, anche per via di un bel po' di infortuni. Ma s'è goduto tutto, ascesa e tramonto, senza cambiare mai.
“E’ stato il mio idolo. A casa ho un piccolo museo. Ho la maglietta di un solo tennista. La sua. Firmata. Un onore essere stato il suo ultimo avversario”, ha detto a fine partita lo spagnolo Ferrer. Forse perché Hewitt in campo è sempre stato il più spagnolo dei non spagnoli, come conferma l’ammirazione dichiarata di Nadal nel video mandato in onda sul campo di Melbourne per l’addio. Si presenta in circuito con un paio di caratteristiche spiccate, subito evidenti e mai ritoccate. Quando nel ’98 vince il primo torneo, peraltro battendo Agassi in semifinale, Gianni Clerici scrive: “Il bambino Lleyton Hewitt ha sorpreso tutti. Bambino ho scritto, perché questo riccetto biondo ha soltanto 16 anni, ma sta in campo con la grinta di un Connors, ancorché con educazione. E' diventato il terzo più giovane di tutti i tempi, questo Hewitt, nel vincere un torneo. E la sorpresa aumenta nell'osservare che pesa sessanta chili, non ha muscoli, né il suo allenatore Peter Smith pensa di acquistargliene qualche chilo alla prima farmacia dietro l'angolo”. Eppure, con un fisico normale, dentro un mondo che viaggiava verso l’atletismo e la muscolarità, Hewitt ha portato a conseguenze estreme il fight tennis. Era l’evoluzione di Connors, ma nella definizione di Bud Collins “non ruba, come ha fatto infinite volte Jimmy. Non influenza di giudici. Sarà antipatico, ma non contravviene alle regole”. Sputa a ripetizione in terra, urla C’mon, certo disturba gli avversari. Ma è onesto. Quando appare, partecipa al grande rinnovamento del tennis australiano, che in quel momento conta pure su Rafter e Philippoussis. Batte Sampras in finale a New York 2001 (facendogli il break sei volte dopo che quello nel torneo aveva vinto 87 turni di servizio di fila), e poi si prende il Masters, e poi il numero uno, e poi la Davis, pare poter segnare un’era. Hewitt inventa un tennis, ha scritto il Wall Street Journal qualche giorno fa, che Federer Nadal e Djokovic hanno portato a compimento. Nel senso che fino a qualche decennio fa esisteva una divisione netta fra i giocatori d’attacco e quelli di ribattuta. Darren Cahill, che di Hewitt è stato allenatore, ha spiegato che “i campioni del passato avevano tutti una zona in cui si sentivano più a loro agio. Il rovescio di Sampras, per esempio, era tutt’altro che straordinario, così come non lo erano i movimenti di Agassi. Tutti avevano una debolezza. Lo Hewitt di quel periodo non ne aveva”.
Non è mai stato simpatico. Non è stato baciato dagli dei, né nel fisico né nella tecnica. Federer è più giovane di lui di sei mesi, ma è diventato grande con la maturità, perciò con il suo stile classico è un campione più moderno, perché più vicino allo spirito dell’epoca che scoraggia i baby campioni: oggi solo quattro giocatori fra i primi cento hanno meno di vent'anni. Hewitt è stato il bagliore di una favola. Un dominatore in transito. Batté Federer per sette volte nei loro primi nove match. Era ancora, quello, il Federer pigrotto che ogni tanto sfasciava racchette, imprecava contro se stesso e andava a rete senza porsi tante domande. Hewitt lo adorava. Era un bersaglio e lo passava. “Lleyton mi ha costretto a tirar fuori il meglio di me”, è stato l’omaggio di Roger, che per batterlo è dovuto diventare più aggressivo, inventarsi un altro tipo di rovescio, evolversi, crescere. Così lo ha battuto quindici volte di fila a partire dal 2004. E’ per cominciare a battere Hewitt che Federer è diventato Federer. Tesi che lo stesso Cahill caldeggia: “Hewitt ha il merito di aver fatto di Federer il giocatore che è oggi”. Fosse davvero solo per questo, bisognerebbe dirgli grazie.

mercoledì 20 gennaio 2016

Paloschi e il gol no-look

Quando arriva il pallone sulla testa di Paloschi, sono passati tre secondi. Tre secondi dall'ultimo sguardo, gettato di sfuggita alle proprie spalle per capire com'è la situazione là dietro. Tanti, pochi, nello sport non si sa. In tre secondi i meccanici ai box cambiano le ruote a una Ferrari e un fucile spara frantumando un piattello; tre secondi nel basket possono durare anche tre minuti, come accadde nella finale olimpica fra russi e americani a Monaco ‘72: time-out, rimessa, tira tu, tiro io, ripetizione, proteste. Paloschi ha la porta dietro di sé, e poiché quello che una volta si faceva in tre secondi oggi nel calcio si deve fare in uno, in un secondo Paloschi lo fa. Scarta l'idea dello stop poiché come direbbe Bruno Pizzul «ha il problema di girarsi». Non si gira, allora. Non stoppa. Non guarda. Paloschi tira. Colpo di testa all'indietro, a parabola, eppure non è solo istinto.

L'inviato non nasce per caso

«NON li prendono più, non li prendono più», urlò nel microfono dal lago di Lucerna, il Rotsee, e noi da casa scoprimmo gli Abbagnale. Era il 1982, l'anno di Pablito, ma pure dei "fratelloni". Gian Piero Galeazzi era stato fino a quel momento la voce del tennis in Rai e l'uomo che dall'Olimpico ci aveva dato per primo la notizia degli arresti per lo scandalo del calcio scommesse. Il canottaggio sarebbe diventato il territorio delle sue gioiose intemperanze: «Non c'è più tempo per morire» urlò sempre agli Abbagnale un'altra volta. In questo libro ci sono i testi delle sue telecronache, le incursioni negli spogliatoi dopo gli scudetti, i duetti con Agnelli. E l'incontro con Mara Venier, che «praticamente sconvolse tutti i miei programmi».
(la Repubblica, 29 gennaio 2016)

lunedì 18 gennaio 2016

Chi comanda in uno spogliatoio


Era quattordicesima, guardate ora dov’è. Ma per capire la rimonta della Juve non bisogna ammirare i gol, non subito, i gol vengono dopo. È fuori dal campo che tutto è cominciato, dentro lo spogliatoio, il luogo dove le verità di una squadra di calcio passano e si manifestano prima che siano visibili a tutti noi sul prato. È la faccia di Buffon che si deve fissare, quella che il portiere mette in primo piano davanti alle telecamere a fine ottobre, dopo la quarta partita persa su dieci contro il Sassuolo. Dice: “Siamo stati indegni, indecorosi. A 38 anni non ho voglia di fare figure da pellegrini. Non dobbiamo noi grandi permettere una cosa simile”.
Noi grandi significa i leader della squadra, noi che deteniamo il potere dentro la stanza in cui gli sguardi estranei non possono arrivare. Lui, il motivatore Bonucci, il filosofo Evra, il silenzioso Barzagli, il duro Lichtsteiner, il ragazzo di casa Marchisio: ogni uomo, un profilo; e tutti insieme l’anima della Juve, la sua cabina di comando, la scatola nera che governa equilibri e umori nascosti. Ogni squadra ne ha una, e se non ce l’ha sprofonda.
Guardate cosa fa Buffon a Reggio Emilia. È decisivo. Rompe il cerchio dell’anarchia dentro un gruppo che in estate aveva perso due figure centrali come Pirlo e Tevez. Fa l’appello dei valori perduti, ricorda ai giovani il senso d’appartenenza, ricuce brandelli di squadra con il filo morale della sua comunità. Lo fa - ed è un dettaglio non da poco - andando in tv in modo irrituale prima che di là passi il suo allenatore Allegri. Disegnando una nuova carta di forze e pesi in campo, la Juve si ritrova. Non è una magia, è una storia vecchia quanto il calcio. Una mappa del potere dentro uno spogliatoio si può scrivere in mille modi. Non sempre il più bravo è anche il più influente. Nel Santos di Pelé comandava un mediano di nome Zito. Totti è l’unico calciatore italiano ad avere un ufficio nella sede del suo club, una stanzetta piena di poster coppe e cimeli, sistemata sullo stesso piano del direttore sportivo Sabatini. Ma dentro lo spogliatoio oggi non esercita quanto potremmo immaginare. Non più. In questo periodo di burrasca, la sua voce in pubblico non c'è. Gli ha dedicato una dose di veleno Burdisso, suo ex compagno di squadra, che in una intervista alla Gazzetta di lui ha detto: “Non è un vero leader, De Rossi è stato troppo buono: non ha voluto scavalcarlo”. Diversi, vicini, mai fino in fondo amici: tuttora De Rossi resta a Trigoria nel nucleo dei capi. Ce l’abbiamo un modo per riconoscerli dall’esterno. Sono quelli che si espongono quando una sconfitta fa rumore, per evitare che le parole dei peones producano più danni. De Rossi è tra questi. Non si nasconde. Come il portiere De Sanctis, scivolato in panchina ma sempre fra i più ascoltati dai compagni: perché un leader può anche giocare poco o mai, eppure restare autorevole agli occhi dei suoi, come Amauri al Torino o Palombo alla Sampdoria.
Il Napoli ha riconsegnato il suo alfabeto segreto al portiere spagnolo Reina. Uno che abbraccia gli altri nel tunnel prima di una partita, si batte il petto col pugno, va a rimproverare a quattr'occhi il compagno che esce polemico dopo una sostituzione. Reina ha stabilito un rapporto speciale con la città. Il suo addio, un anno fa, fu un mezzo trauma. Quando è tornato, ha messo le cose in chiaro col nuovo allenatore Sarri: “Gli ho detto che litigheremo spesso, ma sempre con lealtà”. Con quell’avvertenza si riprendeva il comando, più della stella Higuaín, che al primo giorno di ritiro corse ad abbracciarlo, felice di ridargli la password della squadra. Il comando è spesso questione etnica. L’Inter degli anni passati era in mano ai suoi argentini, tanti e di peso: Cambiasso, Samuel, Milito, Palacio, soprattutto Zanetti, che ha poi esteso la sua autorità fino a raggiungere la vicepresidenza. Quando si confessa in privato, Mazzarri si dice convinto di essere stato esonerato anche per l’ostilità di quel partito. Intorno a Mancini si è dovuto ricreare daccapo un nucleo di potere, partendo dal cileno Medel e dal brasiliano Melo, due che sull’aura da cattivi fondano la metà del loro prestigio. In questa squadra, soltanto un anno fa, negli ultimi minuti contro la Juve i due attaccanti Icardi e Osvaldo – argentini – si stavano mettendo le mani al collo in pubblico per un pallone non passato. “Così non si costruiscono le grandi squadre”, mandò a dire Mancini ai due. Osvaldo non c’è più. Pure dalla Roma era dovuto andar via dopo una lite nello spogliatoio: raccontano che Maicon l’avesse attaccato al muro dopo un gesto di foot-bullismo verso un ragazzino della Primavera.
Terry e Bridge: la stretta di mano negata
Terry e Bridge: la stretta di mano negata
I codici interni sono come tavole della legge. Comprendono piccole regole di convivenza che si fissano al ritorno dalle vacanze (non si usa il cellulare al campo, non si canta sotto la doccia, non si va in moto) e un cifrario anche tribale. Ne sa qualcosa proprio Icardi, colpevole d’essersi innamorato della ex moglie di un compagno di squadra, Maxi López. Ha conosciuto per un po’ una sorta di esilio morale da parte del suo ambiente, almeno finché Wanda non l’ha sposata. Perfino Maradona, non il primo esempio di monogamia che possa venire in mente, dall’Argentina gli mandò a dire: “Ai miei tempi lo avremmo picchiato a turno”. Perché il punto qui non è la fedeltà alla propria donna, ma al tempio, allo spogliatoio. John Terry, capitano della Nazionale inglese, si vide sfilare la fascia dal braccio per essere andato a letto con la moglie del suo compagno al Chelsea e miglior amico, Wayne Bridge. L’autorevolezza di un grande attaccante straniero della serie A è venuta meno fra i compagni quando avviò una relazione stabile con una delle ragazze che aspettano i campioni all’uscita dal campo, e che dal campo rientrava la sera a casa a bordo di macchine diverse. Del resto, in questo mondo di eterni adolescenti, capita che una guida carismatica venga scelta in base al solo valore visibile e calcolabile durante una doccia di gruppo. Il maschio alfa.
Benìtez e Ronaldo al Real
Benìtez e Ronaldo al Real
A un allenatore si perdona tutto, eccetto la perdita di controllo degli equilibri dentro la stanza in cui nasce impercettibile la gloria. O la disfatta. “Non mi dimetto per una sconfitta, casomai me ne vado se non governo più lo spogliatoio”, ha detto Van Gaal, allenatore del Manchester United. Ma ogni allenatore ha il suo registro. Mourinho lavora cercandosi un nemico, al Chelsea un mese fa il suo centravanti Costa gli ha lanciato una pettorina sulla faccia. “O io o lui” ha urlato nel frattempo Cristiano Ronaldo al Real Madrid, obiettivo lo spigoloso Rafa Benítez. Entrambi sono saltati per uno spogliatoio ostile. Andato via José, il Chelsea si sbloccò subito con tre gol. Il Real con cinque. Di Pep Guardiola si sa che dai suoi esige sottomissione, l’ha rivelato Ibra. Conte mollò un pugno in un armadietto a Bergamo quando Doni osò contraddirlo, indebolendone la guida. Ancelotti punta sulla serenità. Non è un full metal jacket, tiene tutto dentro. Chi prende lui, si garantisce una gestione serafica. Paolo Maldini raccontò che negli spogliatoi avversari sentivano regnare tensione e silenzio, nel loro c’erano Berlusconi e Ancelotti che raccontavano barzellette. Gli allenatori hanno imparato che devono lasciare alla squadra il suo privato. Si vive in ambienti separati. I calciatori di là, lui in un’altra stanza, il rapporto fra loro è questione delicata. Per via di qualche esclusione, Messi a Barcellona non ha rivolto per mesi la parola a Luis Enrique. Gli dovette parlare Xavi: “Calmati”. Ora si dice che la squadra si regga su un compromesso. Dentro lo spogliatoio il potere è di Leo, l’ex bambino fragile, in campo è di Neymar e Suárez. Per qualche gol in più.
Il libro di Valdano
Il libro di Valdano
Per provare a leggere uno spogliatoio, si deve osservare una squadra dopo un gol. Sbirciare nelle esultanze. Guardare come festeggiano, chi abbraccia chi, se le riserve partecipano, se dal mucchio gioioso qualcuno si tiene lontano. Cesare Prandelli impose alla Nazionale un codice etico. La sua applicazione a singhiozzo condusse al tracollo. Anziani contro giovani, scapoli contro ammogliati, la spedizione al Mondiale andò in rovina. Nel libro “Le undici virtù del leader”, l’argentino Jorge Valdano definisce lo spogliatoio un habitat, un tempio di superstizioni pagane, il deposito dei segreti spirituali. Il calcio ci rispecchia. Lì dentro convivono “furbi, stupidi, gentili, ombrosi, buoni, cattivi, coraggiosi, vigliacchi, vanitosi, umili, leader, gregari. Il cemento che unisce quei tasselli così diversi è la generosità di alcuni”. Senza generosità, il gruppo non funziona. Parve un’esagerazione a noi estranei l’esclusione di De Rossi dalla formazione della Roma, tre anni fa, per un ritardo di cinque minuti a una riunione. Ma chi conosce il linguaggio privato del calcio sa che non esiste affronto maggiore. Filippo Fusco, dirigente, ultimo incarico l’anno scorso al Bologna, relatore ai corsi del centro tecnico di Coverciano, spiega che “un ritardo toglie importanza a ciò che stai facendo e alle persone con cui lo fai. Lealtà, correttezza, senso di appartenenza: queste sono le colonne di una coabitazione ideale. In termini cristiani: non fare a un compagno ciò che non vorresti fosse fatto a te. L’addizione di tanti ego forti può rendere imbattibile una squadra o sfasciarla. Una squadra è fatta di ingranaggi che non si vedono, la mancanza di valori condivisi smantella questa micro-società. Perciò diventano centrali i facilitatori, gli agevolatori degli stati d’animo, un team manager, un direttore sportivo o quelle figure che fungono da custodi dei valori di un ambiente, come massaggiatori e magazzinieri”.
socrates   Gli invisibili. Negli Brasile della dittatura anni ’80, il gesto politico di Socrates fu il varo della democracia corinthiana: il Corinthians metteva ai voti ogni decisione. Su tutto. Ritiri, orari, programmi. Votavano anche massaggiatori e magazzinieri. Salvatore Carmando, leggendario fisioterapista di Maradona, uno che conosce l’arte del buonumore, minacciava scherzosamente la squadra di rivelarne i segreti in un fantomatico libro, annunciato di duemila pagine e dal titolo “Il spogliatoio”. Italo Allodi, dirigente della grande Inter anni ’60, appuntava in un’agenda le date dei compleanni delle mogli dei calciatori. Come sanno bene i Beatles e le coppie di amici che fanno le vacanze assieme, se le signore non vanno d’accordo l’affare si complica. Nel selfie scattato a maggio scorso dalle mogli della Juve allo stadio, sbucò a sorpresa Ilaria D’Amico, da poco la nuova compagna di Buffon. Venne letto come un buon segno: la casta delle signore l’aveva accolta. “Mia moglie Mary è stata fondamentale nel tenere unita la squadra”, racconta Beppe Bruscolotti, leader del Napoli dello scudetto ‘87, “casa nostra era aperta a chi volesse capire la città. Uno spogliatoio crolla se c’è menefreghismo, se c’è chi dice: cosa me ne importa, l’anno prossimo vado via. Non servono molte parole, anzi. Chi parla troppo è fastidioso”. Uno spogliatoio ha l’olfatto sviluppato, sa annusare un leader che arriva. Eraldo Pecci, 60 anni, uno scudetto al Torino nel ‘76, era di questi. “Un leader sprigiona endorfine. Essere il più bravo in campo aiuta, perché dentro lo spogliatoio con lo sguardo cerchi prima un Rivera di un Lodetti, prima Pirlo di Padoin. Ma non è decisivo. Nel mio Torino, Roberto Salvadori aveva due piedi a papera, ma intuiva l’arrivo delle crisi come nessun altro e si faceva trovar lì. Era un collante. Il leader non alza la voce, il leader vede una via d’uscita prima degli altri”.
Lazio 1974: Wilson, Maestrelli e Chinaglia
Lazio 1974: Wilson, Maestrelli e Chinaglia
Certi meccanismi sono uguali, in serie A come più giù. Sergio Mari ha vissuto quindici anni fra B e C, fra Cavese Akragas e Centese, oggi ha una seconda vita da artista: responsabile di una galleria d’arte contemporanea, scrive monologhi teatrali, il suo ultimo romanzo è “Sei l’odore del borotalco”. Dice Mari che “un allenatore accentratore è un problema, il gruppo non gli perdonerà il primo minimo cenno di imbarazzo. Ne ho conosciuti alcuni reduci da Mondiali che però tremavano di fronte agli esclusi dalla formazione. Ho lavorato con Ventura, uno dei più apprezzati oggi in A, ma a me non ha insegnato niente. Attenzione. L’ho avuto prima che arrivasse Sacchi, uno che ha rivoluzionato la scena. Voglio dire che solo dopo Sacchi tutti si sono messi a studiare gestione del gruppo. Sono cambiati pure gli spogliatoi. I silenzi sono più dannosi di una scazzottata. Il silenzio fa emergere le paure, spinge a rintanarsi. L’ideale è parlarsi al martedì: dopo una partita persa sarebbe buona regola tacere”. L’eccezione più rumorosa rimane la Lazio campione nel ’74, spaccata in due clan: da una parte Chinaglia e Wilson, dall’altra Martini e Re Cecconi. Una squadra che finiva le partite d’allenamento a schiaffi, che viveva in due spogliatoi diversi a Tor di Quinto, che si sfidava al tiro al bersaglio con le pistole. Se a tavola Chinaglia ordinava vino bianco, gli altri chiedevano il rosso. A ogni rissa, il povero allenatore Maestrelli li chiudeva tutti in una stessa stanza: “Ora chiaritevi, quando avete finito bussate e vengo ad aprirvi”.
Lo spogliatoio del Barcellona
Lo spogliatoio del Barcellona
Bruno Barba, ricercatore di antropologia all’Università di Genova, autore di “Un antropologo nel pallone”, spiega: “Uno spogliatoio è l’esatto contrario dei famosi non-luoghi di Marc Augé. È un iper-luogo, dove si crea l’anima della squadra, dove regna un realismo magico e si diventa più della somma degli individui. È sottoposto a un’alchimia che sfugge. È un contenitore di simboli con riti auto-referenziali e pseudo-religiosi: un paradosso in questo Occidente che deride la superstizione. In questo contesto un leader non si sceglie. Il leader si impone con il suo curriculum di credibilità, il gruppo gli dà lo scettro accettandolo”. Qualcosa è cambiato negli atteggiamenti esterni, adesso che le squadre sono frammentate quanto la nostra vita sociale, con calciatori che arrivano al campo in solitudine, le cuffie alle orecchie, la musica a tutto volume. Ma la sacralità del luogo resta. Lo spogliatoio è il tempio di sempre. Impenetrabile. O quasi. Guardate la prossima partita, poi andate a leggere le pagelle. Se qualcuno vi parrà aver giocato da sei e il voto invece sarà sette, ecco, quello lì forse qualcosa ai giornali la va a raccontare. Dagli spogliatoi siamo affascinati. Le tv pagano milioni per piazzare lì dentro le loro telecamere prima di una partita, consapevoli d’aver in cambio una recitina in cui i campioni s’infilano le maglie, allacciano le scarpette e al massimo dicono “forza, andiamo”. I turisti si mettono in fila per visitarli. Il Barcellona fa pagare 23 euro un giro fra museo e vestuario. Più che per entrare a Stonehenge, ma vuoi mettere il culto di un mistero vero.

(versione da blog di un articolo uscito su Il Venerdì di Repubblica l'otto gennaio)

L'enigma di Dzeko


Ora, per carità, a noi romantici va bene tutto: che Florenzi giochi alla Taddei, che Pjanic sia Pizarro e che Nainggolan faccia Perrotta. Ma in questo quadro alla Dorian Gray in cui lo Spalletti di oggi cerca l’immagine della sua Roma di ieri, il povero Džeko chi sarebbe?
Non il Totti del 2007, quello dei trentacinque gol stagionali di cui ventisei in campionato. Quasi quasi neppure lo Shabani Nonda dell’anno prima, che a questo punto aveva segnato più di lui. Forse bisognerebbe uscire dal quadro, farebbe bene a lui e alla Roma intera, e del resto un eventuale ritorno di Liedholm non trasformerebbe Salah in un Bruno Conti, Rüdiger non ce lo vedresti come Vierchowod né tantomeno Džeko potrebbe fare Pruzzo. Al povero Džeko la Roma chieda di essere Džeko, sempre che siano chiare le idee su chi egli sia. Perché finora è stato un grande equivoco, il più grande della gestione tecnica di Sabatini. Dopo la cessione dei giovani intorno a cui andava costruito il progetto (Lamela, Marquinhos). Dopo la carestia dei difensori centrali. Dopo l’indigenza sui terzini. Džeko viene accolto, alla pari di Mandzukic, come uno dei vecchi nove. A Garcia c’è chi chiede di cambiare la Roma per assecondare il centravanti, che peraltro arriva dichiaratamente come un piano B. C’era Bacca sulla prima riga del quaderno; mesi dopo Trigoria farà trapelare che in cima alla lista brillava addirittura il nome di Higuaín. Più distante è il modello individuato per la prima scelta, meno si comprende l’alternativa. Quando la Roma prende Džeko, accolto alle soglie dei trent’anni da un entusiasmo superiore ai 4 gol segnati lo scorso anno, di Džeko si sa già parecchio, se non tutto. Di un centravanti classico ha i centimetri, ma non devi chiedergli di fare quel lavoro là. Džeko non è un reparto, Džeko è un giocatore di sponde. Ha sempre dato il meglio di sé con un altro attaccante accanto. Il 78 percento dei suoi gol in carriera li ha segnati di piede. Non è un ariete. Contro squadre che si chiudono, finanche Gervinho sa essere uno sfondatore più efficace, con l’anarchica velocità di cui dispone. La Roma di Garcia è stata irresistibile quando ha saputo giocare oltre i paradigmi. Più stava in campo da atipica, meno era possibile leggerne i movimenti. Sul primo Džeko di Spalletti vale perciò quanto detto due mesi fa sullo Džeko di Garcia. Un vero nove nell’architettura di questa squadra non c’entra niente, perché chiedere al bosniaco di provare a diventarlo?
Ogni grande club ha uno Džeko nella sua storia, un incompiuto da cui si aspettava fuoco e fiamme, e da cui ha raccolto cenere. Il Milan con Rivaldo (2002) credette di aver preso un Pallone d’oro, s’accorse d’essersi messo in casa un calciatore che per la prima volta in dieci anni scendeva sotto i quattordici gol a stagione, e anche di molto. Due anni prima di Maradona, il Napoli aveva comprato Ramòn Dìaz (1982), capocannoniere dei Mondiali under 20, per scoprirlo triste e malinconico, prima di vederlo segnare a ripetizione ad Avellino, a Firenze, all’Inter. Non più di tre anni fa, Della Valle trascorse l’estate a litigare con De Laurentiis per portar via Mario Gomez al Bayern. Si racconta che per la scelta sia stato decisivo il parere della moglie; il Napoli dirottò i soldi della cessione di Cavani su Higuaìn, che per fortuna non era sposato. L'Inter si lanciò su Darko Pančev, attaccante da Scarpa d'oro e secondo al Pallone d'oro. Alla Stella Rossa era detto il Cobra, quando andò via lo chiamavano il Ramarro. Lo Džeko della Juve si chiamava Ian Rush (1987), uno da 140 gol con la maglia del Liverpool nei sette anni precedenti, più altri novanta al suo ritorno. A Torino invece una specie di disastro. Quando nel 2009 uscì la sua autobiografia, scoprimmo che parlava più con Agnelli che con i compagni. Era chiaro, all'Avvocato, quale fosse l'intoppo: "A Rush manca un Dalglish". Uno in grado di mandarlo in porta come Kenny faceva a Liverpool. Rush ha scritto che pochi parlavano inglese in quella squadra, pochissimi quelli che lo parlassero con lui. Rari gli amici: Laudrup, Brio, Pasquale Bruno, forse perché anche lui - la tesi nel libro - era stato messo ai margini dal gruppo. "Certe volte entravo nello spogliatoio e gli altri tacevano all'improvviso, dandomi l'impressione che stessero parlando di me". Male, si capisce. Ma per Džeko non tutto è perduto. Qualcuno gli racconti che l'anno scorso hanno fischiato Higuaín. A Napoli e in Argentina. Elìas Perugino su El Gràfico ricorda che dopo la scorsa Coppa America, dopo il rigore tirato in cielo, si parlava di ciclo finito. Un certificato di morte calcistica per Gonzalo, che oggi è un morto in ottima salute.

sabato 16 gennaio 2016

L'eccezione di Sacchi


Giochi bene, vinci e torna quella parola. Utopia. Come dire: un'aspirazione irrealizzabile. «Perché in Italia siamo fuori dal mondo. Giocar bene e vincere non è un'utopia in Brasile, in Inghilterra, in Spagna, in Olanda». Ventotto anni dopo il Milan di Arrigo Sacchi, forse ci risiamo, se a dirlo è proprio lui: c'è un nuovo calcio all'italiana.
«Questo è il campionato più interessante degli ultimi 50 anni, non solo per l'incertezza. L'Italia sta uscendo da una dittatura tattica, da un'era in cui il portiere se ne stava sotto la traversa cascasse il mondo, il 2 faceva il 2, il 6 faceva il 6, già era tanto se avevi una seconda punta accanto al 9. Penso a Napoli, Fiorentina, Empoli e Sassuolo che al centro mettono il gioco. La Lazio ci prova, la Roma ci provava. Nonostante il pericolo del divismo e del business, c'è una democrazia calcistica in atto. L'avanzata del merito».
Perché in Italia è così difficile?
«Il calcio è lo specchio della vita di un Paese. Ogni popolo vi riproduce cultura, mentalità, abitudini. Non abbiamo mai definito cosa sia per noi il calcio. Non uno sport: lo sport ha delle regole e una morale, noi abbiamo scandali quotidiani. Non uno spettacolo: perché esiste una ricerca del risultato a ogni costo. In questo quadro confuso s'è fatto strada un pensiero che disconosce il merito, in un Paese in cui furbizia e conoscenze valgono di più».

mercoledì 13 gennaio 2016

La sfiducia di Ballardini

UNO non se lo immagina Davide Ballardini da Ravenna fare la voce grossa e gridare alla sua ciurma che «la paura è la mia arma migliore», come il capitano Bligh, il tiranno del Bounty. Figlio dell'intensità di Sacchi, timido e miope com'è, sembra comunque un tipo consegnato alla mitezza. I nonni coltivavano barbabietole e frutta, gli hanno trasmesso l'amore per i campi e gli hanno insegnato a guidare il trattore. In pochi hanno sentito da lui una parola fuori posto. Eppure, gli tocca incontrare il suo nemico Marlon Brando sotto le sembianze di Stefano Sorrentino. Il capo degli ammutinati va in tv e lì lo scarica, senza neppure lasciargli compagni sulla scialuppa: «Non ci ha parlato né prima né dopo la gara». Esonerato dalla squadra, dopo il gol di Vázquez e una vittoria. Zamparini preferisce una versione più aulica: «Ballardini si è auto-esonerato facendo il muto».

domenica 10 gennaio 2016

Bodegas, il pallanuotista totale


PER capire la piccola rivoluzione dentro la Nazionale italiana di pallanuoto, bisogna immaginare che nel calcio esista un Ibrahimovic in grado di giocare non solo da centravanti ma pure nella propria area, come difensore centrale. Nella stessa partita, nella stessa azione. Un giocatore così nell'acqua esiste, si chiama Michaël Bodegas ed è la grande novità azzurra per gli Europei che cominciano domani a Belgrado, in una piscina da 11mila posti ricavata nella Kombank Arena, costruita dal '92 sotto i bombardamenti e aperta finalmente nel 2004: dove hanno suonato Dylan, Sting e Clapton, dove Djokovic ha vinto la sua Davis. «Se conosco i movimenti dei due ruoli, sono più utile. Sembra da schizofrenici, lo so».

sabato 9 gennaio 2016

Dybala, un Pantheon che cammina


New York è a seimilacinquecento chilometri di distanza, ti danno una punizione dal limite e anche senza l'uomo con la barba qualcuno dovrà pur tirarla. Così il povero Allegri una volta incarica Pogba, un'altra si arrangia con Hernanes e preso dalla disperazione un giorno considera perfino che sia il turno di Bonucci: per dire a quale livello di stress possa sottoporre il calcio. Finché trentasei partite dopo l'ultimo gol juventino su punizione, contro il Torino ad aprile, Dybala prende la rincorsa e mette la palla nel punto in cui fino a pochi mesi fa sapeva piazzarla soltanto Lui, l'uomo che non rideva mai. In porta. La "benedetta". Come fai a questo punto a non cedere alla tentazione di chiamarlo "il nuovo Pirlo"?
D'altra parte, chissà perché, con Dybala certi accostamenti vengono naturali. Quando a diciannove anni diventa il più giovane a far gol nella storia dell'Instituto Atlético Central, a Córdoba per tutti è "il nuovo Kempes". Solo qualche mese più tardi Zamparini passa in Argentina e mette dodici milioni sul tavolo per portarsi il ragazzo in Sicilia, gridando al mondo di aver scoperto "il nuovo Agüero". Pietro Lo Monaco che gli sta accanto prova a riportare le cose dentro i nostri confini. Il Kun non c'entra, per lui è "il nuovo Montella". Ma siccome i giorni passano, i ricordi sbiadiscono e le abitudini cambiano, quando dopo 21 gol arriva il momento di venderlo, e di venderlo bene, Dybala è già diventato "il nuovo Messi"; adesso vale cento milioni racconta in giro Zamparini, aggiungendo commosso che preferirebbe darlo al Napoli, perché lì sarebbe diventato il "nuovo Maradona". E qui l'affare onestamente si complica.
disedyba«Non vado al Napoli: là nessun argentino potrebbe fare meglio di Diego» fa sapere Dybala, un po' per smarcarsi avendo in tasca l'accordo con la Juve, un altro po' perché non gli sfugge il tipo di destino a cui sono andati incontro tutti i "nuovi Maradona" della storia: da Borghi a Gallardo, da Ortega a Buonanotte. Meglio Torino, allora. Dove pure lo aspettano con i paragoni puntati. Marotta lo accoglie come il "nuovo Tévez" perché nel frattempo il vecchio, quello vero, se n'è andato. Il sospetto è che Paulo se le vada a cercare: si presenta con questa tendenza a tenere i calzettoni sempre un po' abbassati e finisce che il tifoso Ezio Greggio lo prende per il "nuovo Sivori". Più scetticamente, quasi tutti quanti gli altri cominciano a credere che casomai si tratti del "nuovo Iturbe", per via dei tanti milioni spesi (40), dei pochi gol e delle troppe panchine a cui Allegri lo costringe. Lo stesso Dybala aggiunge confusione facendo partire dal suo account un tweet in cui riferisce di aver ripreso gli allenamenti a Trigoria e chiudendo con un "forza Roma" che certifica questo gigantesco conflitto di personalità presenti in un corpo solo. Peraltro un corpo con tre passaporti: argentino, italiano e polacco. Uno, Dybala e centomila. In realtà aveva solo fatto casino il suo social media manager - li chiamano così: lo stesso del romanista.
Mettendosi dietro le spalle il numero 21, Dybala accetta di diventare un Pantheon che cammina. Era il numero che portava Zidane prima ancora di Pirlo, quello con cui in Argentina nel ‘78 Rossi diventò Pablito. Ma è pure il prodotto fra i due numeri sacri, il tre e il sette, e dunque un segno della perfezione. Il Blackjack. Naletilic, agente Fifa, vede in lui "il nuovo Baggio". Prandelli resta incantato e lo chiama "il nuovo Del Piero". Dybala è una glossa calcistica. Traduce gesti antichi nel linguaggio corrente. È una summa di frammenti, li ammucchia e finisce per citarli tutti. Il primo campione post-moderno. Chissà come lo avrebbe definito l'Avvocato, che aveva visto Raffaello (Baggio), Pinturicchio (Del Piero) e Delacroix (Zidane). Senza una risposta, dovremo lentamente abituarci al pensiero che Zamparini sta già cercando "il nuovo Dybala".
aggiornamento (25 gennaio 2016) "Dybala ricorda un po' Boniek, un giocatore che trascinava". (Trapattoni)

mercoledì 6 gennaio 2016

Non era Malafemmena

Sono persino arrivati a dire che la sua celeberrima, splendida "Malafemmena" Totò l'abbia scritta per me... Totò... Era veramente un gentleman dalla punta dei capelli fino alla punta dei piedi. Era un professionista favoloso. Molto signore, molto gentile, molto bravo. Anche se, allora, quei film che oggi sono portati alle stelle erano considerati commerciali. E lui ne soffriva. Per me aveva un'ammirazione immensa - ero molto giovane, allora - ma si accostava con una tale discrezione... con una tale carineria... Il grande bene che mi voleva me lo faceva capire. Mi faceva capire che mi avrebbe voluto sposare... Anzi, ne aveva parlato con papà. E papà gli diceva: "Guardi, Silvana è una ragazzina. Non pensa a queste cose". E lui mi faceva trovare in camerino i cioccolatini, i mazzolini di fiori guarniti con il pizzo. Era un amore, il suo... [...] E non soltanto il suo sentimento per me era così prepotente... Hanno cominciato a chiedermi in moglie all'età di dodici anni. Un po' prestino, direi. Anche se, vista di spalle, con i miei splendidi capelli sciolti, ne dimostravo qualcuno in più.

lunedì 4 gennaio 2016

La scrittura secondo De Giovanni


DETTO COSÌ, FA IMPRESSIONE. «Ho ammazzato un uomo adulto, un anziano, una cartomante, una contessa, un orfano, una coppia, una prostituta, un professore universitario». Maurizio De Giovanni ha avuto due vite. Una da impiegato di banca, fino al 2005, in cui per fortuna non ha ucciso nessuno; la successiva da scrittore, questi ultimi dieci anni, pieni di delitti di carta. Lui sostiene che in realtà le vite sono tre, ce ne sarebbe un’altra, quella in cui tocca capire cosa si vuole diventare. «Ero pigro, sovrappeso, giocavo a pallanuoto. Un ragazzo gioviale, socievole. Ma leggevo. La prima e la terza vita in fondo si assomigliano. Credevo di voler fare il giornalista, era un equivoco, ora so che in realtà volevo scrivere. Non fu possibile. Mio padre morì di domenica, il lunedì facemmo il funerale, il martedì consegnai domanda di assunzione in banca. Era il primo posto di lavoro a cui si pensava dopo un voto alto alla maturità. Sono diventato vicedirettore della sede perché in banca, come dappertutto, promuovono i più scadenti: se sei bravo ti lasciano nel tuo ruolo, dove gli servi davvero. Ho fatto il ragazzo padre per anni senza scrivere una parola, non avevo niente nel cassetto, nemmeno un sogno. Casomai scrivevo qualche canzone: c’era quest’amico, Osvaldo, che sapeva suonare la chitarra, musica brasiliana, io mettevo i testi, più che altro serviva per rimorchiare».