So così poco di sport che per quasi mezz’ora chiamai il calciatore più famoso d’Italia, il divo del pallone, il ragazzo dai piedi d’oro, “signor Rovere” anziché “signor Rivera”. Questo durò fino a quando egli disse tra mortificato e divertito: “Posso… posso dirle una cosa?”. “Ma certo, ma sì”. “Ecco: io… veramente… non mi chiamo Rovere. Mi chiamo Rivera… Gianni Rivera”.
Ne provai ammirazione. Pensate un po’ cosa sarebbe successo se la medesima gaffe l’avessi fatta non so, col signor Mastroianni: chiamandolo non so, signor Castrovanni. Il signor Castrovanni, pardon, Mastroianni si sarebbe offeso fino alle viscere, mi avrebbe cacciato come un re offeso. L’ammirazione per il signor Rovere, pardon Rivera, comunque divenne presto spavento: il solito spavento che mi prende dinanzi ai ventenni senza timidezze o paure, già vecchi prima d’essere adulti. Quei puntini esitanti mentre correggeva il mio errore, infatti, furono i soli che il Gianni mi regalò. Dopo quelli procedé sicuro, diritto, proprio come accade (mi dicono) quando accompagna in porta il pallone e fa gol. Confutò la mia indignazione al fatto che costasse mezzo miliardo o giù di lì, giustificò il suo disinteresse per i libri, sorrise a qualche mia ingenuità: “Ma cosa vogliono queste ragazze che telefonano?”. “Guardi: tutto!”.
Il Gianni parlava con le braccia incrociate sul tavolo dove la famiglia Rivera mangia nelle occasioni importanti. Nella stanza arredata con eleganza operaia c’era solo quel tavolo, una credenza moderna, sei seggiole, un televisore, una poltrona, un divano. Nella poltrona, allungabile, dorme la notte il suo fratellino; nel divano di gommapiuma, ci dorme lui. Appoggiata al muro c’era la mamma, col grembiule da cucina e le mani chiuse sul ventre, gli occhi gelosi e orgogliosi. Le ragazze telefonavano interrompendoci spesso e, quando questo accadeva, gli occhi di mamma Rivera erano un po’ più orgogliosi; quando invece si posavan su di me, erano un po’ più gelosi. Ma cosa voleva questa sconosciuta con le braccia nude e le domande indiscrete? Ma che aveva da rimproverare al suo Gianni? E: “Attento, Gianni” diceva ogni volta che lui si piegava in avanti per spiegarmi qualcosa. Sicché non capivo se la raccomandazione fosse diretta a ciò che il Gianni spiegava o al fatto che il Gianni si piegasse in avanti. Il Gianni, allora, le lanciava uno sguardo furbesco quasi a dir stai tranquilla, so io quel che faccio e che dico. Lo sapeva anche quando portai il discorso sui libri, sulla scuola che egli lasciò nel momento in cui la scuola serve davvero a qualcosa: sedici anni. A sedici anni si incomincia a capire chi era Napoleone e chi era Dante Alighieri, si scopre Dio o l’ateismo, la verità o la retorica; i libri non sono più un bagaglio di noiose nozioni. Ma lui li gettò proprio allora alle ortiche: per non leggerli più. E’ suo padre che gli consiglia o gli ordina di non leggerli più: nemmeno nelle noiosissime ore durante le quali non ha niente da fare.
Il padre del Gianni fa il ferroviere. Nelle giornate d’inverno, quando il freddo gela le mani ed attaccare un vagone fa dolere le dita fino alle lacrime, non si consola pensando che suo figlio sarà un giorno avvocato o ingegnere, almeno impiegato di banca: si consola pensando che suo figlio è già calciatore, e guadagna un milione per mese, e ci ha la fuoriserie e riceve le lettere come un attore del cinema. E’ stato sempre il sogno di papà Rivera, è il sogno di molti italiani che vivono un’epoca infangata dal Totocalcio, la pubblicità sui mediocri, il successo overnight. Quando io andavo al ginnasio mio padre diceva “Vorrei che tu facessi il medico, da grande” e il fatto che abbandonassi le sale anatomiche per i giornali lo riempì di dolore: quasi le avessi lasciate per far la ballerina o la trapezista. Quando il Gianni andava alle medie suo padre diceva “Vorrei che tu facessi il calciatore, da grande” e il fatto che abbandonasse ragioneria lo riempì di sollievo. Diventar medici, avvocati, ingegneri è quasi sciocchezza per i poveri degli anni Sessanta; legger libri, una distrazione quasi imbecille; diventare ciclisti, calciatori, boxeurs è innalzarsi agli dei. “Mio figlio è in seconda liceo ma gioca bene al pallone” disse il tassista che mi portò da Gianni Rivera; “io glielo dico sempre: che studi a fare? Pensa piuttosto a perfezionare il pallone. Quest’anno, grazie a Dio, lo hanno preso tra i ragazzi del Milan”. Studiare va sempre meno di moda: non c’è la televisione a raccontarci le cose? Né è detto, del resto, che abbiano torto. Attendere è duro quando i genitori e i genitori dei genitori non hanno fatto che attendere e, con la cattedra di letteratura, Salvatore Quasimodo guadagna in un mese quel che Gianni Rivera guadagna in una domenica; a insegnar l’abc in un villaggio, una maestra guadagna in un mese quel che Mina guadagna in un minuto secondo.
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“Lei non ci crederà, lo capisco dal modo in cui mi guarda che non ci crede ma nel nostro mestiere non sono mica le gambe che si stancano di più: è il cervello. Non si gioca mica solo con le gambe, coi piedi: si gioca con la testa, col ragionamento. Se uno è stupido, mi creda, non può diventare un bravo calciatore. Allora che accade? Accade che fisicamente io recupero presto, perché sono giovane, ma psichicamente ci metto moltissimo a recuperare. Accade che quando torno da un allenamento o da una partita mi provo a leggere: mi metto lì e dico ora non mi muovo e leggo. Ma il mio cervello va altrove. Volevo imparare almeno le lingue, mi ero comprato perfino il linguaphone: non ce l’ho fatta. Ma cosa vuole: di giornate libere noi abbiamo solo il lunedì. Dal martedì alla domenica il nostro corpo e il nostro cervello si consumano nell’attesa di quel concentrato di fatica che esploderà la domenica pomeriggio, per un’ora e mezzo. E se si vuol rendere in quell’ora e mezzo bisogna dimenticare qualsiasi altra cosa: lo dice anche mio madre”.
Cosa dice suo padre?
“Mio padre non vuole che studi”.
Suo padre non vuole che studi? Ha detto così?
“Esattamente. Mio padre dice che non si possono fare due cose nel medesimo tempo: e ha ragione. Infatti, quando leggo i giornali il più delle volte finisco col leggere le didascalie sotto le foto”.
Mi pare che suo padre tenga più di lei alla sua carriera di calciatore.
“Sì, in un certo senso sì. E’ stato lui a spingermi, a incitarmi, a incoraggiarmi”.
Capisco. Suo padre cosa fa?
“Fa l’operaio alle ferrovie. Un mestiere molto duro: che rende in modo indirettamente proporzionale alla fatica. E io vorrei che smettesse: tanto, per quei due soldi che guadagna… Ma lui non vuole smettere sebbene dica: ti ho mantenuto fino ad ora, ora potresti anche essere tu a mantenere me. Non può stare senza far nulla e poi non vuol perdere la pensione. Gli mancano cinque anni alla pensione”.
Capisco. Dunque dicevamo che i giornali, bene o male, li legge. E cosa legge sui giornali? I resoconti delle partite di calcio, altre cose?
“Il calcio, mai. Anche quando mi faccio degli amici, cerco sempre di farmeli tra quelli che non parlan di calcio. Leggo le altre cose. La crisi di Cuba, per esempio, l’ho seguita un poco sebbene di politica io non capisca nulla: se avessi dovuto votare, non avrei saputo davvero per chi votare, a sentir loro hanno tutti ragione. Leggo certe rievocazioni. Io, per esempio, sono nato nell’agosto del 1943: il periodo Badoglio. Non so ancora nulla, o quasi nulla, di questo periodo Badoglio, non sono ancora riuscito a capire se avevano ragione i tedeschi o gli inglesi, gli italiani o gli americani, e non che la cosa mi interessi più del necessario: quel che è stato, è stato. Però…”.
Capisco. E il volo di Gordon Cooper l’ha interessato? L’ha seguito sui giornali o alla televisione?
“Sì. Ma non più del necessario, anche quello. Partito il primo, partito il secondo, partito il terzo, non fa più effetto. Andavamo in Inghilterra quando Cooper salì con l’astronave, a Londra mi son preoccupato di sapere se era sceso. Mi hanno detto che era sceso e sono stato contento: non più del necessario, però. Anche il fatto che vadano sulla Luna non mi esalta più del necessario, sento per questo la medesima reazione che sento per ciò che è successo a me: se sono diventato quel che sono è perché sono bravo e in ciò non v’è nulla di fantastico; se vanno sulla Luna è perché è giunto il momento di andare sulla Luna e in ciò non v’è nulla di fantastico. Voglio dire che è inevitabile che debbano andar su: partiti da una bomba che manda in aria una città, non si può arrivare che a quello. Voglio dire che io vivo senza sorpresa l’epoca nella quale vivo: senza urletti di meraviglia. E’ la mia epoca e un’epoca dove può succeder di tutto: andar sulla Luna e…”
… e costare quasi mezzo miliardo: quanto non costerebbe, probabilmente, se fosse in vendita come avviene per un calciatore, un fisico nucleare. E’ un vecchio discorso, lo so: ormai non stupirebbe un neonato. Ma vorrei sapere proprio come giudica, lei, il fatto di costare quasi mezzo miliardo.
“E io lo voglio dire, quello che penso: perché tutti credono che noi calciatori si sia stupidi, teste di legno, zoticoni, che non si capisca nulla perché non abbiamo studiato, e nessuno ci chiede mai seriamente: Ma tu cosa ne pensi? Penso che mi fanno ridere quelli che dicono: Bisogna-moralizzare-il-calcio-e-i-calciatori. I calciatori o il prezzo per cui si comprano e si vendono i calciatori? E poi penso che quel mezzo miliardo o quasi non l’ho mica in tasca io. Ma chi li vede, questi miliardi? Io, no davvero. Io, con tutti questi complimenti di bravura, sono riuscito solo a comprarmi un appartamento e come vede abito ancora in un posto modesto, non ho neppure una camera mia, la notte dormo su quel divano che diventa un letto. Mezzo miliardo! Mezzo miliardo fa in fretta a riempire la bocca. Guardi: mez-zo mi-li-ar-do. Sembra di mangiare una bistecca in un boccone. Solo che io non lo mangio. Il mio stipendio non è quello. Magari guadagnassi quello”.
E quanto guadagna, signor Rivera, ogni mese? Trecentomila? Di più? Quattrocentomila? Di più? Cinquecentomila? Di più? Seicentomila? Di più? Un milione?! Un milione al mese non è poco per un ragazzo di vent’anni, bravo che sia a giocare con un pallone.
“Sì, lo so che cosa pensa. Pensa al fisico nucleare. E’ giusto, pensa, che un fisico nucleare non guadagni quel che guadagna questo zoticone, questa testa di legno che non ha neppure la fora di leggere? E io le rispondo no, non è giusto, ed io lo so come lo sanno quelli che ci portano in trionfo e muoiono di infarto cardiaco perché io fo un gol o non lo faccio. Lo sanno anche loro che noi non siamo Einstein e che in confronto al peggior fisico nucleare siamo niente, ma niente. Però col fisico nucleare essi non si divertono e con noi si divertono. Einstein non giocava a calcio e Pelé gioca a calcio. Il calcio ormai è spettacolo e in questo spettacolo la gente va a vedere chi gioca: chi gioca meglio è giusto che sia pagato meglio. Siamo noi che attiriamo la gente, mica chi sta dietro di noi. E poi tutto è proporzionato agli incassi: se una società incassa un miliardo lordo all’anno, perché i giocatori di quella società devono guadagnare centomila lire al mese? Né il discorso vale solo per le società, vale anche per lo Stato. Ogni settimana lo Stato guadagna mezzo miliardo con il Totocalcio: pensi che scherzo se i calciatori decidessero di far sciopero una domenica o due. E, tutto sommato, perché non dovrebbero fare sciopero? E’ un mestiere”.
Scusi sa, io non me ne intendo: ma credevo che fosse uno sport.
“E’ un mestiere e il fatto che sia un mestiere non nega che sia anche uno sport. Essere pagati non ci rende meno sportivi: ci prepara anzi più coscienziosamente e più scientificamente. Io sono convinto che se potessimo far disputare una partita dalla miglior squadra di oggi e la migliore squadra di trent’anni fa, “quando lo sport era sport”, vincerebbe la squadra di oggi. Io, quando gioco, non giovo per vanagloria, per vedermi citato sui giornali e via dicendo. Gioco perché è il mio mestiere e per la soddisfazione che mi nasce dentro: una specie di coscienza d’aver compiuto un dovere. Io, quando leggo sui giornali che non sono stato bravo, ho quasi vergogna ad uscire per strada, mi sembra che tutti ce l’abbiano con me. Quando leggo che ho giocato male, mi sembra di aver tradito qualcuno: il mestiere per cui vengo pagato. Mi ricordo tre anni fa, quando cascavo sempre per terra. Non avevo ancora diciassette anni, avevo giocato nell’Alessandria che stava per retrocedere e poi avevo giocato alle Olimpiadi: ero così stanco, così stanco, e cascavo per niente. Così i giornalisti scrivevano che ero un bluff, che ero buono soltanto da mettere in giardino, ed io soffrivo: ma non tanto per la figuraccia, per la coscienza di quel tradimento”.
E poi dicono che i giovani d’oggi sono leggerini. Complimenti: ancora una frase e riusciva a commuovermi. Davvero il suo perbenismo è feroce. Mi dica, signor Rivera: come vive, a parte il calcio, un ragazzo così ferocemente perbene?
“Oh, non c’è nulla di drammatico nella mia vita: mi creda.
Non è una vitaccia. Alle dieci e mezzo sono già a letto, alle nove del mattino sono sveglio. La mattina vado al Milan, ci vado a far niente, ma presentarsi è obbligatorio, e poi torno a casa: dove mangio con la mamma e col mio fratellino. Mangio di tutto, non bevo: tutt’al più un po’ di vino annacquato. Nel pomeriggio vado agli allenamenti e la sera ceno di nuovo a casa: la sera c’è anche il babbo che torna alle sei. La domenica mattina vado alla Messa perché sono religioso sebbene non sia bacchettone, e qualche volta vado al cinematografo dove scelgo filmetti leggeri: guardando i nomi degli attori. Qualche volta guardo anche il nome del regista, per esempio ho scoperto uno svedese, Ingmar Bergman, che mi piace tanto. E qualche volta vado anche a vedere i film seri o che chiamano seri. Per esempio ho visto Otto e mezzo che non mi è sembrato il capolavoro che dicono: ma cosa c’è da capire in quel film? Io ci ho capito soltanto che prima di andare a vedere quel film uno deve leggersi la vita del signor Fellini; e la vita del signor Fellini non mi interessa per niente. Spesso poi siamo in ritiro, oh i dannati ritiri!... E più spesso ancora siamo in viaggio: per vedere niente. Io ho girato tutta l’Europa, sono stato in Sud America, e non ho visto nulla né dell’Europa né del Sud America. Appena arrivati ci chiudono in albergo o ci mandano all’allenamento, e appena finita la partita ci fanno ripartite. E’ lo stesso che viaggiare bendati. Comunque non mi rammarico”.
(Oriana Fallaci, Gli antipatici, Rizzoli 1963, Bur Rizzoli 2014)