Ora, per carità, a noi romantici va bene tutto: che Florenzi giochi alla Taddei, che Pjanic sia Pizarro e che Nainggolan faccia Perrotta. Ma in questo quadro alla Dorian Gray in cui lo Spalletti di oggi cerca l’immagine della sua Roma di ieri, il povero Džeko chi sarebbe?
Non il Totti del 2007, quello dei trentacinque gol stagionali di cui ventisei in campionato. Quasi quasi neppure lo Shabani Nonda dell’anno prima, che a questo punto aveva segnato più di lui. Forse bisognerebbe uscire dal quadro, farebbe bene a lui e alla Roma intera, e del resto un eventuale ritorno di Liedholm non trasformerebbe Salah in un Bruno Conti, Rüdiger non ce lo vedresti come Vierchowod né tantomeno Džeko potrebbe fare Pruzzo. Al povero Džeko la Roma chieda di essere Džeko, sempre che siano chiare le idee su chi egli sia. Perché finora è stato un grande equivoco, il più grande della gestione tecnica di Sabatini. Dopo la cessione dei giovani intorno a cui andava costruito il progetto (Lamela, Marquinhos). Dopo la carestia dei difensori centrali. Dopo l’indigenza sui terzini. Džeko viene accolto, alla pari di Mandzukic, come uno dei vecchi nove. A Garcia c’è chi chiede di cambiare la Roma per assecondare il centravanti, che peraltro arriva dichiaratamente come un piano B. C’era Bacca sulla prima riga del quaderno; mesi dopo Trigoria farà trapelare che in cima alla lista brillava addirittura il nome di Higuaín. Più distante è il modello individuato per la prima scelta, meno si comprende l’alternativa. Quando la Roma prende Džeko, accolto alle soglie dei trent’anni da un entusiasmo superiore ai 4 gol segnati lo scorso anno, di Džeko si sa già parecchio, se non tutto. Di un centravanti classico ha i centimetri, ma non devi chiedergli di fare quel lavoro là. Džeko non è un reparto, Džeko è un giocatore di sponde. Ha sempre dato il meglio di sé con un altro attaccante accanto. Il 78 percento dei suoi gol in carriera li ha segnati di piede. Non è un ariete. Contro squadre che si chiudono, finanche Gervinho sa essere uno sfondatore più efficace, con l’anarchica velocità di cui dispone. La Roma di Garcia è stata irresistibile quando ha saputo giocare oltre i paradigmi. Più stava in campo da atipica, meno era possibile leggerne i movimenti. Sul primo Džeko di Spalletti vale perciò quanto detto due mesi fa sullo Džeko di Garcia. Un vero nove nell’architettura di questa squadra non c’entra niente, perché chiedere al bosniaco di provare a diventarlo?
Ogni grande club ha uno Džeko nella sua storia, un incompiuto da cui si aspettava fuoco e fiamme, e da cui ha raccolto cenere. Il Milan con Rivaldo (2002) credette di aver preso un Pallone d’oro, s’accorse d’essersi messo in casa un calciatore che per la prima volta in dieci anni scendeva sotto i quattordici gol a stagione, e anche di molto. Due anni prima di Maradona, il Napoli aveva comprato Ramòn Dìaz (1982), capocannoniere dei Mondiali under 20, per scoprirlo triste e malinconico, prima di vederlo segnare a ripetizione ad Avellino, a Firenze, all’Inter. Non più di tre anni fa, Della Valle trascorse l’estate a litigare con De Laurentiis per portar via Mario Gomez al Bayern. Si racconta che per la scelta sia stato decisivo il parere della moglie; il Napoli dirottò i soldi della cessione di Cavani su Higuaìn, che per fortuna non era sposato. L'Inter si lanciò su Darko Pančev, attaccante da Scarpa d'oro e secondo al Pallone d'oro. Alla Stella Rossa era detto il Cobra, quando andò via lo chiamavano il Ramarro. Lo Džeko della Juve si chiamava Ian Rush (1987), uno da 140 gol con la maglia del Liverpool nei sette anni precedenti, più altri novanta al suo ritorno. A Torino invece una specie di disastro. Quando nel 2009 uscì la sua autobiografia, scoprimmo che parlava più con Agnelli che con i compagni. Era chiaro, all'Avvocato, quale fosse l'intoppo: "A Rush manca un Dalglish". Uno in grado di mandarlo in porta come Kenny faceva a Liverpool. Rush ha scritto che pochi parlavano inglese in quella squadra, pochissimi quelli che lo parlassero con lui. Rari gli amici: Laudrup, Brio, Pasquale Bruno, forse perché anche lui - la tesi nel libro - era stato messo ai margini dal gruppo. "Certe volte entravo nello spogliatoio e gli altri tacevano all'improvviso, dandomi l'impressione che stessero parlando di me". Male, si capisce. Ma per Džeko non tutto è perduto. Qualcuno gli racconti che l'anno scorso hanno fischiato Higuaín. A Napoli e in Argentina. Elìas Perugino su El Gràfico ricorda che dopo la scorsa Coppa America, dopo il rigore tirato in cielo, si parlava di ciclo finito. Un certificato di morte calcistica per Gonzalo, che oggi è un morto in ottima salute.
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