C'è una domanda che noi appassionati di tennis da qualche giorno ci facciamo. Se tu sei Roger Federer, un monumento che cammina in mezzo a noi, uno seriamente candidato a essere preso in considerazione come il più bravo di sempre in questo sport, l'uomo più simile a un'esperienza religiosa (David Foster Wallace); ecco - se tu sei Roger Federer cosa ti aspetti da un allenatore che è meno bravo di te?
Il contesto è chiaro. Ci sei tu e basta. Un lui (o una lei) è dall'altra parte. Due solitudini divise da una rete. C'è una palla nella tua metà del campo e il tuo compito è mandarla di là. Non puoi sottrarti. Nello sport in cui si finisce più spesso per parlare da soli, lo scambio di colpi diventa la simulazione di un dialogo. Ma non c'è nessuno a suggerirti le parole. Devi fare da solo. È il tennis. Salvo che in Coppa Davis, a chi gioca è vietato ricevere indicazioni dal proprio allenatore. Suggerimenti, consigli, niente: sbrigatela tu. Non è facile. Eccetto che in un caso. Se sei Roger Federer. Questo almeno pensiamo tutti noi. Sbagliando.
I compiti di un coach
Un allenatore in questo sport è una figura speciale. Fa i conti con dei limiti. Non può alzarsi dalla panchina né urlare come nel calcio, non può chiamare un time-out come nel basket nella pallavolo o nella pallanuoto, non è seduto veramente all'angolo come nella boxe. Non conforta, non corregge, non scuote. Osserva. Batte le mani da lassù, fa il pugnetto, al massimo grida ogni tanto un come on. È quasi trasparente durante la partita. Invisibile. Ma questa è apparenza. Il punto sta in quello che fa prima: sul campo durante le sedute, fuori durante le lunghe attese. Sono i momenti in cui esercita una funzione sul corpo e sulla mente del suo giocatore, sulla teoria e sulla pratica, sulla meccanica e sulla filosofia. Diventa un compagno di palleggi, uno stratega, un tattico, un videoanalista, un osservatore d'avversari, un normalizzatore di stati d'animo, uno psicologo, un motivatore. In una parola sola: un facilitatore. Non esiste un altro sport in cui il coach sia una figura tanto dominante. Arriva a vivere le sue giornate accanto alle tue. Siede in tribuna di fianco a tua moglie, la tua compagna, mamma, papà. È dentro la famiglia. Con tutto ciò che comporta. Plasma e può plagiare, ingombra e può invadere. Si finisce per diventare una sua proiezione sul campo. Un coach deve conoscere quali linee esistenziali non vanno calpestate.
I più apprezzati
Quelli delle Academy più celebri, col tempo, si sono fatti una fama da guru. Nick Bollettieri su tutti. Il più bravo anche nell'auto-promozione. C'è stata la sua mano in un modo o nell'altro dietro dieci numeri uno: Becker Courier Agassi Rios, e tra le donne Seles Hingis, le Williams, Sharapova e Jankovic. Di lui Courier diceva che avesse una mentalità da paracadutista. "Conosco il modo di convincere un ragazzo ad allenarsi come dico io". Nick Bollettieri è per la maggior parte dentro questa frase qui, per sua stessa ammissione. Prima che la figura si evolvesse, il tennis venerava il "capitano non giocatore", il grande ex che selezionava la nazionale in Coppa Davis, la preparava e dava consigli. Come Harry Hopman in Australia, quindici edizioni vinte in ventuno anni. La sua parabola ci dà un primo indizio sulle caratteristiche di un coach. Hopman non ha mai vinto uno Slam in singolare nella sua carriera. Ha giocato una finale in Australia, ma non è andato oltre gli ottavi a Wimbledon, i quarti a Parigi e New York. Però allenava Laver, Newcombe e Roche. In virtù di una dote essenziale: la credibilità. Un caratterino come McEnroe ha lavorato con lui alla Port Washington Academy. Gli dava del lei. Nella sola maniera in cui nella lingua inglese sia possibile dare del lei: lo chiamava mister Hopman. Un buon coach è tale se un giocatore come tale lo riconosce. Consegnarsi. Mettersi nelle sue mani. Björn Borg aveva già vinto quattro Wimbledon e inseguiva il quinto di fila quando nel 1980 si sentì proporre da Lennart Bergelin un cambio di strategia. Londra viveva la sua estate più piovosa degli ultimi 101 anni. Gli allenamenti all'aperto furono rarissimi. Bergelin si assicurò in quei giorni la disponibilità di un campo al chiuso al Vanderbilt Racquet Club e mise nelle braccia e nelle gambe di Borg trenta ore di tennis in più rispetto agli altri. Non solo. Lo convinse, sull'erba umida, ad accorciare gli scambi, a giocare più volée. Nella famosa finale contro McEnroe, Borg andò a rete più spesso del solito. Rubava l'idea a John perché glielo aveva suggerito Bergelin, e lui si era fidato.
Affidarsi a un certo coach può essere una svolta. Larry Stefanki, amico d'infanzia di McEnroe, aveva fama di ottimo gestore della routine quotidiana. Ha costruito Tim Henman, la grande speranza britannica prima dell'arrivo di Murray, per poi portare al numero uno il cileno Rios e il russo Kafelnikov. Ivan Lendl volle accanto a sé Tony Roche, che prometteva di migliorare il suo gioco di volo e le sue esperienze a Wimbledon: arrivarono due finali. In seguito Roche ha portato al numero uno (con due Slam vinti e due finali a Wimbledon perse) l'australiano Patrick Rafter, facendo di lui uno straordinario interprete del serve and volley più puro. Così come un'altra rendita sicura, a un certo punto, pareva essere garantita dal mettersi nelle mani di Bob Brett (Becker e Ivanisevic), un coach che più di tanti altri esige fedeltà e lealtà. Uno dei cardini della sua filosofia tecnica si riassume così: gioca il tuo colpo migliore nel momento peggiore. E' stato il presupposto teorico di tante seconde palle di servizio di Ivanisevic. Affidarsi.
La mutazione dei giocatori
Un certo tipo di relazione maestro-allievo è stata naturale finché il tennis è stato lo sport della precocità. Trentasette titoli di Slam sono andati a ragazzi che non avevano ancora compiuto ventidue anni. Ne aveva diciassette Chang quando stupì Parigi, gli stessi di Wilander, gli stessi di Becker al suo primo Wimbledon. Borg era maggiorenne da dieci giorni quando vinse il primo Roland Garros, Nadal era diciannovenne, come Edberg in Australia e Sampras a New York. A ventisei Borg era già entrato nella sua vita successiva. Le longevità sono state a lungo delle eccezioni: Laver, Rosewall, Connors. Poi la scena è cambiata. Dal 1998 in avanti ben nove Slam sono finiti a un ventinovenne e oltre. Murray ha rotto il suo digiuno a venticinque anni, Wawrinka addirittura a ventotto. Oggi c'è un solo under 19 fra i primi 100 (il tedesco Zverev) e gli under 20 sono quattro (si aggiungono il croato Coric, il coreano Hyeon Chung e l'australiano Kokkinakis), nessuno fra i migliori 40. È cambiata la platea del tennis ed è cambiato il lavoro del coach. Il coach non è quasi mai più soltanto uno. Esiste lo staff. Giocatori più esperti e più maturi esigono allenatori più autorevoli, dinamiche più articolate e complesse. Da questa mutazione genetica del tennista medio, Federer trae vantaggio e ne è il simbolo massimo. È qui a 34 anni che ancora combatte, numero tre del mondo, alle soglie di una stagione per lui diversa, non solo per provare ad aggiungere il diciottesimo Slam ai diciassette già conquistati (l'ultimo però risale al 2012), ma anche per cercare un oro olimpico mai vinto. Ma allora ci si domanda: perché lasciare proprio ora Edberg per Ljubicic?
Com'è andata con Edberg
Con lo svedese, uno dei suoi idoli del passato, Federer ha vinto undici tornei in due anni. Lo ha fatto venendo da una stagione in cui ne aveva ottenuto solo uno. Inoltre contro l'ingiocabile Djokovic di quest'anno (sei partite perse su ottantotto in tutto) Federer è riuscito a vincere tre volte: in finale a Dubai, in finale a Cincinnati e nel girone al Masters. Un pezzo di risposta alla nostra domanda sta proprio in questi successi. Nel 2015 Federer ha scoperto di poter ancora migliorare. Edberg gli ha ridato solidità contro avversari medio-alti dai quali cominciava a perdere e lo ha portato nei paraggi di Djokovic nei match due set su tre. Gli ha restituito brillantezza in attacco, gli ha riattivato schemi e meccanismi di inizio carriera, sono cresciute le percentuali delle discese a rete e in estate Roger ha inventato un colpo che non c'era. Lo hanno chiamato SABR, Sneak Attack by Roger, attacco furtivo, secondo alcuni (fra cui McEnroe) finanche un affronto per chi lo subisce. In sostanza: una risposta di controbalzo in avanzamento. Tutto questo fa di Federer un giocatore ancora in evoluzione, per quanto impossibile possa sembrare.
Cosa cerca Federer
Scoperta la possibilità di incidere ancora su tecnica e fisico, scoperti nuovi margini di miglioramento,
Federer deve essersi chiesto su cos'altro potesse lavorare. La risposta è venuta ancora una volta guardando le sue ultime partite con Djokovic: tre sconfitte su tre nelle finali di Slam, giocate sulla distanza di tre set su cinque. Per un certo periodo in passato Federer si è gestito da solo. Non ha avuto un coach e si diceva convinto della scelta: "È una cosa per ragazzi". Se è tornato sui suoi passi è perché ne ha avvertito l'esigenza. Ljubicic è stato suo avversario. Si sono affrontati sedici volte. Federer ha perso solo in tre casi e comunque mai nelle ultime dieci sfide, durante le quali ha lasciato al suo nuovo coach appena quattro set. Ljubicic non ha mai giocato una finale di Slam ed è stato al massimo numero tre. Federer dunque non sta cercando un altro Edberg. Non chiede di confrontarsi con qualcuno che su di lui eserciti un fascino. Non cerca più un coach che gli mostri ciò che sa fare, ma qualcuno che sappia cosa fargli fare. Federer cerca il rappresentante di una nuova generazione di coach. Ljubicic si è costruito nel fattempo una reputazione di tattico e stratega, sia da teorico, come opinionista tv, sia sul campo come guida di Milos Raonic, un montenegrino di passaporto canadese, un ragazzone di quasi due metri e novanta chili, gran servizio, palla sparata al massimo, un Philippoussis nuova maniera (ma col rovescio bimane). Al Raonic di tre anni fa bisognava insegnare che ogni palla è diversa dalle altre, che non sempre si può tirare a tutto braccio e che qualche volta la prima preoccupazione in uno scambio deve essere quella di tenere la palla dentro le righe. Ljubicic ha portato Raonic nei primi dieci e in semifinale a Wimbledon. Quello che Federer gli chiede è di individuare uno-due-tre punti con cui scompaginare le idee di Djokovic. Può funzionare oppure no. Quel che conta è che Federer pensa di sì. A trentaquattro anni gli serve la stessa condizione atletica che aveva a trentatré o trentadue (il preparatore non cambia), qualche prima palla di servizio in più, un analista più moderno. Quel che conta è che dopo un anno migliore dei precedenti, Roger Federer ha nella testa l'idea di poter fare meglio. Ha una insoddisfazione che lo guida. Raggiunta l'immortalità, vuole riconquistare il presente. Edberg sapeva di storia, Ljubicic è la cronaca che adesso Roger vuole riprendersi. Federer vuole guardare Djokovic e il tennis in un modo diverso prima di muovere il passo d'addio. Ha la curiosità di scoprire dentro di sé una nuova ricchezza, prima di spogliarsi del tutto d'ogni cosa.
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