Il più bel romanzo sul calcio quest'anno l'ha scritto Enrico Macioci, aquilano, quarantenne. Si intitola "Breve storia del talento" ed è ambientato inizialmente nel 1990, in un luogo fatto di pietra e ciottoli, una campagna, un posto dove tra i pochi fili d'erba si sezionano grilli e dove si disegnano cerchi nel terreno con un ramo di cipresso. È qui che esercita tutto il suo magistero calcistico "il grande Michele", volto da indio, quattordici anni, fuggito dal suo patrigno violento in Colombia e adottato da una coppia del luogo. Soprattutto: Michele è il grande rivale del narratore, di un anno più piccolo. Michele cammina su gambe destinate a frustrare per sempre i sogni dell'altro perché "non c'è abbastanza spazio nel medesimo tempo e nel medesimo luogo per due abbastanza bravi nella medesima cosa; uno dei due deve cedere". Michele è lo strumento attraverso cui si fa prima o poi esperienza dei propri limiti. È un portatore sano di amarezze.
Al condominio di Prato Verde prima o poi ci siamo stati tutti. Enrico Macioci è straordinario anche perché nella prima pagina condensa già ogni elemento della storia. Come fanno i grandi registi al cinema. È una pagina che in miniatura le contiene tutte, nella semplice descrizione di un tiro in porta. Compare in apertura il grande tema dell'irreversibilità psicologica d'una supremazia infantile ("Il primo gol lo fece così"), in dieci righe veniamo travolti da flash di quella fisicità che troveremo nell'arco dell'intera storia (le spalle, le mani, la schiena, le ginocchia, le cosce, la nuca, i capelli, e poi via via fino al dettaglio della cute e dei pori); c'è il calcio che abbiamo conosciuto quando era ancora soltanto un gioco ("l'Etrusco bianco a rombi neri, neri solo i contorni, l'interno dei rombi bianco") e c'è la premonizione di quel che sarà ("si sollevava d'un palmo e mezzo e ricadeva, pàc pàc, una campana a morto, una sentenza"). Macioci racconta tutto in un italiano che si preoccupa di non perdere mai di vista due aspetti: la naturalezza e l'eleganza. Una lingua fatta di reiterazioni e spesso di allitterazioni, in sostanza di ritmo e musicalità: "Michele tirò di destro al volo mentre si girava, tirò girandosi per metà, insomma fece due azioni contemporaneamente, tirò senza guardare la porta ma sapendo dove fosse, sapendo dove fosse ogni oggetto sulla superficie del campo, conoscendo l'esito, il futuro immediato".
Mentre Roby Baggio segna ai Mondiali contro la Cecoslovacchia il suo gol più bello, a Prato Verde si consuma quell'estate in cui finisce l'infanzia e inizia qualcosa che non si conosce bene, l'estate in cui passa un attimo e la tua amichetta di sempre porta la terza di seno, all'improvviso cresciuta "senza lasciare scampo". Macioci, qui sta la bellezza del suo romanzo, racconta l'adolescenza attraverso il calcio. "È davvero strano che la grande maggioranza di noi riesca a sopravvivere a una tale catastrofe e a tirare avanti per decenni". I sensi di colpa. La scoperta di un'angoscia senza senso. La vergogna per la masturbazione e per le prime poesie che il narratore compone, "due facce della medesima, fasulla moneta. Entrambe richiedevano isolamento, entrambe si nutrivano di fantasia". Quando alle quattro del pomeriggio di molti anni dopo, ormai con un matrimonio in bilico, tornerà fra i balconi vuoti di Prato Verde, fra certe visioni, fra certi fantasmi, a cercare cos'è stato del grande Michele, l'alter ego di Macioci finirà per fare i conti con una verità che non si può ignorare: "che la vita in qualche modo riuscirà a stupirti".
Il calcio è più d'un gioco; solo sull'erba del campo, nel momento in cui il piede del giocatore impatta la palla, producendo un suono pieno e quasi musicale, così perfetto e compiuto, solo allora se ne trova l'essenza, un centesimo di secondo prima che il gesto venga ripreso dalla TV e ritrasmesso dentro milioni, miliardi di case in ogni angolo del globo, diventando una mostruosa combinazione d'aggressività e amore, nichilismo e fede.
(Enrico Macioci, Breve storia del talento, Mondadori, 153 pagine, 17 euro)
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