martedì 1 dicembre 2015

I meriti di Sarri e il suo limes

sar  C’è una generazione di napoletani che non era mai stata al primo posto. Hanno dai venticinque anni in giù, alcuni hanno fatto in tempo a diventare padri, altri a rovinarsi già la vita, in venticinque anni c’è spazio per questo e altro. Non sono di quelli che possono cantare “ho visto Maradona, innamorato son”. Maradona non l’hanno visto. Gliel’hanno raccontato. Una generazione condannata a crescere sotto il peso insostenibile di un ricordo che non ha, schiacciata dal confronto impossibile con qualcosa di cui non ha memoria. Una generazione che ora ha l’ultimo passo da compiere. Liberarsi di Diego. Uccidere il padre.  
Che nome dare a questa generazione, questo è un bel punto. La tentazione più facile sarebbe chiamarla Generazione Sarri. Ma sarebbe un errore. Perché in venticinque anni questi ragazzi e post-ragazzi hanno sì visto due retrocessioni in serie B, un fallimento e due anni di serie C, ma non è con Sarri che si sono liberati dei cattivi pensieri. Le squadre di calcio non sono cactus che sbocciano all'improvviso.


Un Napoli all’altezza delle esibizioni di oggi c’era già stato. Erano spettacolari le ripartenze in velocità della squadra di Mazzarri, un approccio quasi rugbistico al calcio, aperture alla mano, avanzamenti in verticale con appoggi progressivi sui lati, con il miglior Hamsik mai visto in Italia e con la capacità di Lavezzi di sventrare le difese, uno strumento che nel suo caos sovvertiva gli schemi. Aveva fiammate estetiche di alto profilo - specialmente al San Paolo - pure la squadra di Benítez, con i suoi tre trequartisti dietro il centravanti, con gli inserimenti e i tagli che riproducevano i princìpi della pallanuoto. Non sono mancati grandi successi contro grandi avversari e un nuovo profilo internazionale (16° nel ranking Uefa): il 3-1 al Chelsea, il 2-1 al Borussia, il 2-0 all’Arsenal. Non sono stati sfizi isolati. Agli ultimi Napoli non sono neppure mancate le vittorie: una Coppa Italia con Mazzarri dopo 25 anni (ancora) e un biennio con Benítez in cui il Napoli è stata la sola squadra italiana a vincere qualcosa (altra Coppa Italia e Supercoppa) oltre la super Juve di Conte/Allegri. Neppure un centravanti tanto devastante come Higuaín è una novità. L'argentino ha segnato 67 gol nelle 121 partite del suo triennio, una media di 0.55 a partita; ma Napoli aveva avuto Cavani: 104 gol in 138 partite, la media è 0.75.
Ma allora dov'è l'eccezionalità di questo Napoli? Il primo posto da solo non spiega tutto. Questo sentimento di euforia era vivo già prima del 2-1 all'Inter. L'eccezionalità è nello stupore. Nell'ultimo anno di Mazzarri e nei due di Benítez, Napoli s'era convinta che lo scudetto fosse l'unico traguardo accettabile, il solo segno di una vera crescita, il solo orizzonte possibile. Il San Paolo ha vissuto come delusioni (fallimenti addirittura nel caso di Benítez) dei risultati che erano comunque fuori dall'ordinario. Napoli non se li è goduti, mentre da Sarri non si aspettava niente. In estate si teorizzava e si leggeva l'elogio del ridimensionamento. Qualcuno auspicava finanche la cessione di Higuaín così da comprare Immobile, nel nome del mito dell'italianizzazione, meglio ancora della napoletanità. In questo senso l'arrivo di Sarri - una sola stagione di esperienza in serie A con otto partite vinte a Empoli e nessuna esperienza in Europa - strideva con l'evidenza di una squadra rinforzata: Reina, Allan, Valdifiori, nessuna cessione. La diversità allora stava nell'ammirazione incredula di questo Napoli, nel ritenerlo una visione. E' stata la forza di Sarri in queste prime 14 giornate. Ma sono sempre e solo 14 giornate. Un frammento. Questo primo posto diventa adesso paradossalmente il confine di Sarri, una soglia fra lui e il futuro. Difficile che Napoli tenga a freno attese e pretese, per cui Sarri dovrà andare a giocarsi la partita su un altro terreno, a lui sconosciuto. Le pressioni. Quelle di Napoli e quelle esterne, in arrivo da città dove vincere è più naturale e dove sanno gestire da maestri i meccanismi della comunicazione. Sarri è il custode di un calcio antico. Legge e interpreta il suo mondo da maestro del campo. Non ha avuto bisogno di sovrastrutture lungo il suo percorso. Sansovino, Sangiovannese, Pescara, Alessandria, neppure Empoli gli hanno imposto una mutazione genetica. Il calcio di Sarri è il prato. Là è il limes. "Non so se i miei metodi sono adatti a una rosa di 25 giocatori piena di stranieri", dopo l'ultima a Empoli. Sarri era un azzardo, si candidava lui stesso come un azzardo, e forse lo è tuttora. Guardi il suo Napoli e pare fuori dal tempo. La preparazione atletica è basata su un duro lavoro a secco, tradizionale, vive di picchi, di alti e di bassi (infatti gli infortuni muscolari sono aumentati). Giocano sempre gli stessi undici, le rotazioni sono minori, il malumore è sotto traccia. Sarri è insofferente verso le soste: non era abituato a ritrovarsi il campo d'allenamento svuotato dalle Nazionali. La ripresa del campionato gli appare ogni volta piena di insidie. Sarri esibisce ancora ingenuità dialettiche. Scopre l'afa di Napoli in una notturna e dice che gli pareva di giocare a Panama: s'accorgerà cos'è la primavera. Si stupisce se dopo una vittoria in tv gli chiedono di un aspetto negativo: vedrà quando comincia il tormentone sul contratto. Sarri ha il vezzo di narrarsi come antico pure nei dettagli: la tuta anziché l'abito, la paura di prendere l'aereo, le notizie lette da Televideo. Ma è primo. Il campo. Il limes.
Il paragone in voga con Sacchi regge fino a un certo punto. Per abitudini, esigenze e routine quotidiana, fra il calcio di vertice e il calcio di provincia esiste oggi una distanza superiore a quella degli anni '80. Una delle fortune di Sacchi fu la leggerezza. Vinse lo scudetto andando in testa a due giornate dalla fine: anche Sarri forse si gioverebbe di meno stress. Dovrà invece imparare a viverlo, dovrà conoscere cose nuove. Ma ha mente aperta e lo ha dimostrato, già ha imparato tanto: ne è un esempio la scelta del modulo. Voleva il trequartista per giocare con il 4-3-1-2. Il Napoli che aveva in testa quest'estate non era il Napoli che vediamo. Se fosse arrivato uno fra Soriano e Saponara, Sarri non avrebbe scoperto il miglior Insigne della carriera.
Nell'anno in cui Napoli ha perso Pino Daniele, Francesco Rosi e Luca De Filippo, la figura di Sarri comincia a entrare nell'immaginario collettivo della città. Perfino nella campagna elettorale per le amministrative, tanto che Antonio Bassolino di nuovo in campo per il ruolo di sindaco annuncia di ispirarsi a lui, di voler essere un Sarri adesso e non più un Maradona. Un collettivista, intende, non un solista. Sarri ha fatto un lavoro enorme rigenerando Jorginho e Koulibaly, tenendo in panchina i due nuovi che dovevano prenderne il posto (Valdifiori e Chiriches), rimettendo così al centro della scena un vecchio principio caro a Liedholm, secondo il quale sui calciatori si lavora durante la settimana per vederli crescere, non c'è bisogno di pensare sempre al mercato come soluzione. Un alieno. Marco Ciriello scrive che Sarri è il nuovo Scopigno, e in fondo pure il Cagliari vinse il suo scudetto poco dopo essere stato in serie C. Se c'è ancora spazio per lo scudetto di un alieno in questo calcio tanto cambiato, lo dirà il campo. Ma se il Napoli davvero vuol provarci, parli a quei ragazzi, a quei venticinquenni e meno; spieghi loro quanto è importante che conservino il loro stupore, che stavolta si godano il viaggio, dovunque esso porti: se la compagnia è piacevole, il posto in cui si arriva non conta mai.

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