Un aspetto dovremmo sempre considerare, ogni volta che guardiamo il Barcellona. La sua unicità. La singolarità della sua esperienza. Il Barcellona può tenere insieme tre dei migliori cinque attaccanti al mondo. Il Barcellona può fare a meno per due mesi del più bravo calciatore dell’età contemporanea. Il Barcellona può sventrare squadre d’élite e farle apparire inadeguate. Può dare quattro gol al Real Madrid. Può darne sei alla Roma. Può spalancare una crisi improvvisa nel cuore di un benessere. Può far apparire tutto questo come un normale segno di supremazia. Ma sarebbe sbagliato crederlo. In realtà è il segno di una eccezionalità.
Non esiste oggi un’altra squadra di calcio che sia altrettanto irripetibile. Il Barcellona di Luis Enrique è un’avventura irriproducibile. La sua idea di calcio non è trapiantabile altrove perché è legata ai suoi interpreti. Non uno o due, ma tutti, e tutti insieme. Questa è la sua forza come è il suo margine. Il Barcellona di Guardiola si propose come modello universale. Un grossa porzione di calcio credette di poter prendere la scia delle sue vittorie. Molti sono entrati nel laboratorio del tiki-taka anche senza avere Xavi e Messi. Lo stesso Guardiola ha esportato in Germania i suoi princìpi tattici, s’è fatto comprare Xabi Alonso e Goetze, prima di cambiare traccia al Bayern. Lui, come molti altri tecnici che inseguono l’innovazione, rincorre spunti del passato. Lo schema con i cinque attaccanti è il recupero del 2-3-5 in voga fino agli anni Venti. Così come il tiki-taka era stata l’evoluzione offensiva della vecchia melina, o addirittura il ritorno al Metodo, senza lanci lunghi, una riproposizione sublime della ragnatela romanista di Liedholm, quella che Gianni Brera negli anni ’80 definiva “l’immortale titìch-e-titòch con il quale si conserva più facilmente la palla, si fatica di meno e si può scattare di tanto in tanto dopo aver congruamente rifiatato”. Cos’altro era ed è il falso nueve, se non il recupero del centravanti arretrato di scuola danubiana: alla Sindelar (Austria 1926-1938), alla Hidegkuti (Ungheria, 1945-1958). Cos’altro era ed è il Gegegenpressing di Klopp, se non una commistione di totalità olandese e catenaccio all’italiana: più o meno gli ingredienti che miscelati fecero a sua volta la fortuna di Arrigo Sacchi. Il postmodernismo.
Tutti gli innovatori recenti del calcio hanno fatto su un prato quel che nel cinema ha fatto Hazanavicius con “The Artist”, film muto e in bianco e nero. Diventare originali attingendo dal passato. Creare una attualità primitiva. Il Barcellona di Luis Enrique - di Messi Neymar Suàrez – non ha questa pretesa. Non vuole innovare. Non cita nulla, non rivoluziona, non crea modelli. È una squadra che gioca così perché ha questi calciatori qui. Rakitić ha cambiato dimensione allo sviluppo del gioco, da orizzontale a verticale. Lo scopo dei suoi 90 minuti è far arrivare la palla più in fretta possibile fra i piedi dei tre davanti. È facile solo a dirsi. È un meccanismo che ricorda il paradosso con cui Careca svelava gli schemi del suo Napoli: “Passo la palla a Maradona e corro ad abbracciarlo”. Il Barcellona di Luis Enrique è più ricco di soluzioni offensive rispetto a quello di Guardiola, nel quale gli strappi centrali di Messi servivano a cambiare ritmo e a lacerare le difese. Eppure scoprimmo che il contesto prevaleva sul campione quando la Spagna vinse gli ultimi Europei con questo stesso congegno ma senza avere Messi: bastò metterci Fàbregas.
Invece Messi ora fa l’atipico a destra, un dieci naturale che giocava da nove e che si muove dove un tempo si piazzava il sette. Con quale altro giocatore sarebbe replicabile altrove questa struttura? Nessuno, in nessun luogo. Perché solo qui esistono contemporaneamente Neymar e Suàrez. Il Barcellona di Luis Enrique avanza come una squadra di pallanuoto. Chiede agli esterni di smarcarsi, basta mezzo metro, un metro o due, e li pesca dietro la linea dei difensori. Il taglio a quel punto produce una superiorità numerica che quasi sempre si risolve in un gol a porta vuota con l'uomo libero. Una irraggiungibile bellezza che nasce dagli interpreti. In questo senso il Barcellona di Luis Enrique - di Messi Neymar Suàrez – è una squadra del Rinascimento: rimette l’uomo al centro del mondo.
È una tale anomalia, questa squadra, che qualcuno in Catalogna comincia a preoccuparsi. Joaquín Luna ha scritto su La Vanguardia che nessuno sta considerando le ripercussioni pedagogiche di questa tempesta perfetta. “Educazione opulenta” l’ha chiamata, domandandosi che valori trasmettono le vittorie ripetute alle nuove generazioni. “Mio padre fu educato dal dopoguerra, io dalle sconfitte del Barça”. Da quelli che chiama gli anni di piombo del club; stagioni in cui ci si svenava per comprare una stella ma “il calcio era quel gioco in cui vinceva sempre il Real”. Luna fa riferimento al Barcellona che nei primi novanta anni di esistenza vinse appena dieci titoli, gli altri tredici sono stati accumulati nell’ultimo quarto di secolo. Fra l’ottavo e il nono scudetto passarono 14 anni, fra il nono e il decimo altri undici. Calciatori che non hanno vinto il titolo a Barcellona: Neeskens, Simonsen, Maradona, Lineker. “Ci univa il lamento”, scrive Luna, convinto che la felicità non educhi, “siamo cresciuti sapendo cosa significava perdere”. E invece guardate adesso. Tutta questa gloria.
L’ultimo segnale della sua eccezionalità il Barcellona l’ha dato ieri sera in Coppa del re. In vantaggio per 6-1 contro il Villanovense (terza serie), con due cambi ancora a disposizione, Luis Enrique ha evitato di sostituire Mathieu, infortunato, scegliendo di chiudere la partita in dieci. Gli avversari si sono sentiti umiliati.
Nessun commento:
Posta un commento