mercoledì 2 dicembre 2015

Mandzukic e l'impossibile misura della qualità

IN genere funziona così. Arriva un calciatore dall'estero, qualche volta un campione, non la prende mai per un mese o due, e tutti a fingere indulgenza con una frase che poi è la stessa da trent'anni: «Ebbe bisogno di tempo anche Platini». Vero, perché le roi Michel — poi capocannoniere — segnò un solo gol nei primi 40 giorni dell'autunno ‘82, inchiodando la Juve dopo sei giornate al sesto posto (su sedici squadre). Falso però che il tempo gli fu dato. I processi, i cinque e i cinque e mezzo non gli vennero mica risparmiati.

Perciò avvertite Mandžukic, come tanti altri detto Super Mario per via di quasi 200 gol fatti in vita sua, cinque campionati vinti, tre coppe internazionali e il titolo di capocannoniere agli ultimi Europei. Fategli sapere che la storia della pazienza è uno scherzo da memoria selettiva, tempo non ce n'è mai, nessuno ne ha nel calcio, l'unica maniera di conquistarsene è alzarsi in aria come a Palermo, staccare i piedi da terra e con la testa mettere la palla in porta, come in pochi, pochissimi, ormai sono rimasti a saper fare.

Di fronte ai suoi primi due gol consecutivi, Allegri s'è speso per lui: «Non è l'ultimo arrivato, discuterlo è eccessivo». Ma la premessa è più interessante: «Sul fatto che non abbia classe posso anche essere d'accordo». È interessante perché colloca Mandžukic fra gli uomini di quantità, dandogli così un vantaggio, in base ai ragionamenti dedicati al concetto prima da Hegel — gran centrocampista, un pensatore — e poi più a lungo da Caressa. La quantità appartiene alla natura. Ha un ruolo decisivo nella crescita. È il segno del divenire. Addizioniamo centimetri al nostro scheletro, ci capita di aggiungere e meno spesso di sottrarre chili al nostro addome, e su un campo di calcio accumuliamo gol per le classifiche. Tutto si risolve nella logica. Tu fai un gol al Manchester City, un altro subito dopo al Palermo, sono sei in tutto fra campionato e Coppa a inizio dicembre, e noi valuteremo grazie a questa misura la correttezza e la convenienza d'averti atteso. La quantità. Senza possibili equivoci.

Peggio va agli uomini di qualità, una categoria dello spirito; uomini per i quali diventa meno agevole fissare la linea che separa la virtù dal vizio. Quando arrivano quelli senza il colpo di testa da centrattacco anni ‘60 in grado di sfondare difese e porte, quelli senza il senso primitivo del gol, non sai bene quale legge darti per concedere loro o no altro tempo. Lo sa bene Shaqiri, passato in pochi mesi da uomo che doveva salvare l'Inter a esubero da smaltire. E Kovacic, andava ancora atteso? Coutinho: uguale. Un attimo è durato Rafinha al Genoa, Vargas ha lasciato il Napoli e ancora non s'è capito se fosse davvero inadatto all'Italia, mentre il Milan ha sulla coscienza i dubbi su Saponara. Ci sono bocciature precoci che hanno fatto epoca. Con la maglia della Juve addosso, a 22 anni, Thierry Henry aveva più qualità che quantità (tre gol), giocava fuori ruolo e in pochi mesi venne sbolognato all'Arsenal. Vieira fece in tempo a giocare due partite con il Milan: l'Italia andò a riprenderselo pagandolo da stella in Inghilterra. E Aubameyang, oggi capocannoniere in Germania, era nella primavera del Milan. La qualità acceca. Inganna. Qui contiamo i gol, Mandžukic stai sereno.

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