lunedì 21 settembre 2015

Non è vero che risolve tutto la Tristezza

La fortuna di andare al cinema dopo aver letto più o meno tutte le critiche su un film sta nella possibilità di tornare a casa stupiti. Entri in sala già con tutti gli strumenti interpretativi a tua disposizione, peraltro strumenti offerti da gente che di cinema sa più di te: a quel punto, con la certezza che nulla potrà sfuggirti della parafrasi, puoi concederti il piacere di dedicarti alle inezie.
Prendiamo Inside Out. Il film, come ormai tutti sanno, è l'ultimo colpo di genio della Pixar, ed è un nuovo tentativo, forse il più riuscito, di cartoon che parla più agli adulti che ai ragazzi.


La storia è in sostanza un viaggio dentro la psiche di una ragazzina che sta crescendo e dentro gli sbalzi delle sue emozioni, a cui sono state attribuite un volto, una voce, un personaggio: Gioia, Tristezza, Disgusto, Rabbia e Paura. In tanti hanno scritto e sottolineato che il film è un elogio della tristezza o in maniera non meno paradossale che metta al centro di tutto quanto sia importante la gioia di non essere felici. Del resto capita che in un film ciascuno finisca per vederci echi del proprio mondo, rievocazioni di vecchie letture o l'ultima scia di un topos letterario. Va detto che sempre più di frequente, oggi, di un film - soprattutto di certi film - finisca per occuparsi sui giornali non un critico cinematografico (meno ancora un critico teorico) ma quello che nel mondo anglosassone si chiama un columnist, un editorialista, un opinionista chiamato a mettere in rilievo un tema o una tendenza presente nella società. Non sono vere e proprie recensioni, per capirci questo secondo genere non ha le palline o le stelline. Io impazzisco per le stelline. Il Farinotti, il Morandini, il Mereghetti. A casa li ho tutti. E comunque. Questa Tristezza. L'elogio, la sua centralità, eccetera. La vera sorpresa, una volta seduti al cinema, è che le cose non stanno così. O meglio: non stanno completamente così.

spoiler

Non è la Tristezza la deă ex machina che sbroglia la trama; non è vero che dopo il turning point tocca a lei giocare il ruolo chiave. Lo gioca sì, ma non subito. Prima che possa davvero essere utile e meritarsi gli articoli e i titoli che le sono stati dedicati, la Tristezza sta a guardare, e mentre sta a guardare il vero eroe tra le pieghe del film è un altro.
Il Fidanzato Immaginario.
Ta-dà.
Questa non è faccenda di poco conto. Sottolinearla consente di stabilire delle gerarchie. Permette di fissare un primato, ed è il primato del sogno, della fantasticheria - fin lì trattata invece come un peso di cui liberarsi durante il cammino; a dirla tutta è il primato del miraggio, del vagheggiamento, della dimensione onirica - c’è una scena in cui colori e forme citano il famosissimo sogno di Dumbo. È il primato dell'illusione. Non c'è nulla di insensato nell'illusione, non fa del male. Solo dopo viene la Tristezza. Inside Out ci dice che senza un fidanzato immaginario non ci si salva. Questa è la sua prima verità.
La seconda verità è che in California non sono permalosi. La ragazzina del film cade in depressione per il trasferimento da un Minnesota felice a una San Francisco che pare cupa e deprimente. Poteva essere un disastro. Dopo decenni in cui San Francisco è stata raccontata come una delle capitali della cultura americana, la culla del pensiero alternativo hippy e underground; come la città dell’avanguardia poetica degli anni ‘60 e della Renaissance che influenzò Bob Dylan; la casa della Beat Generation e della Summer of Love di pace amore e libertà; come l'epicentro della ribellione alla guerra in Vietnam e un riferimento dei movimenti per i diritti civili - dopo tutto il bendidio arriva questa ragazzina di dodici anni che fa il musetto davanti al Golden Gate e s'immalinconisce perché le mancano i sedici gradi sotto zero del nord più nord che in America esista. E i californiani come la prendono? Niente. Non dicono niente. Poteva essere un disastro, ma non è successo niente. Allora ho pensato a un Inside Out italiano, in cui una pre-adolescente della Carnia, o della Val d'Aosta, finisce a Napoli per motivi di lavoro di suo padre, ma a Napoli non si ritrova, anzi da Napoli progetta di fuggire. Io scommetto che sarebbe finita così: metà Napoli avrebbe protestato per l'immagine negativa che il film dà della città e l'altra metà avrebbe ammonito che negando la realtà eccetera eccetera eccetera. Avremmo come al solito parlato solo di noi e buttato una cosa altissima come Inside Out dentro la campagna elettorale. In California magari si sono fatti una risata. Loro.

3 commenti:

Roberto Liberale ha detto...

Bellissimo il parallelo California-Napoli e la storia della permalosità. Ma gli Stati Uniti sono diversi tra loro, ma non per niente si chiamano Uniti. Il campanilismo non parla americano...

Roberto Liberale ha detto...

Bellissimo il parallelo California-Napoli e la storia della permalosità. Gli Stati Uniti sono diversi tra loro, ma non per niente si chiamano Uniti. Il campanilismo non parla americano...

Rosario Frattini ha detto...

Non ricordo chi, ma qualcuno ha scritto: < L' inverno più freddo della mia vita è stata un' estate a San Francisco> e "San Francisco" si chiamava una delle canzoni più brutte mai scritte negli anni d' oro della musica Beat( e i Dik Dik riuscirono a fare una cover più brutta dell' originale, di tale Scott McKenzie se non ricordo male). Detto quespo bellissimo pezzo.