venerdì 11 settembre 2015

Hateley, flagello e scagnuffo


C'È questa foto in cui un uomo dai capelli lunghi a un certo punto fa partire un colpo di frusta. La frusta stava nel suo collo. «A volte penso che quel gol abbia aiutato il Milan a mettersi alle spalle gli anni bui». Mark Hateley è nato a Derby, e dove se no. Quando nel 1984 brucia a quel modo Zenga e l'Inter, pare davvero il flagello di dio. "È una forza della natura: negli stacchi per incornare non ha eguali al mondo" scrive Gianni Brera. L'anno dopo lo chiamerà "scagnuffo", uno ancora ed era "imbrocchito".
«Rimarrà per sempre un gol diverso. Perché lo fu per la gente. Il Milan non vinceva un derby da 6 anni, era stato in B due volte, il mio avversario era Collovati, andato via dopo la retrocessione, e i tifosi erano offesi con lui. Quando vidi arrivare il pallone, pensai solo a salire più in alto di lui».

Oggi lei vive in Scozia e commenta calcio in tv. Com'è il derby di Milano visto da lì?
«Una partita di calcio, speciale, ma una partita. Hai tutto sotto controllo, non come a Glasgow, dove per via della religione è una follia, e la tecnica resta a 100 miglia dal campo. Ma il vostro calcio vive una crisi di investimenti. Ogni italiana che non gioca una finale europea è un'anomalia. Dovete reagire. La Juve ha capito la via. Cosa ve ne fate di stadi grandi se restano vuoti?».
Il calcio italiano 30 anni fa si permetteva pregiudizi su calciatori inglesi. Esagerato?
«Era strano. Tanti britannici avevano avuto successo: Law, Charles, Francis, Souness. Forse il pregiudizio nasceva da Blissett. E dopo Blissett vengo io, per giunta centravanti come lui. Così tutti a chiedersi: questo chi è?».
E chi era Hateley?
«La mia infanzia era stata pallone, pallone, pallone. Non facevo altro. Io ero bambino e mio padre il centravanti del Chelsea. Mi portava al campo, mi teneva per mano negli spogliatoi. Se non avessi fatto il calciatore, credo che avrei giocato a rugby. Oppure a cricket. Ero bravo, a cricket».
A Milano come arriva?
«A maggio ‘84 vinco gli Europei con l'Under 21, faccio 9 gol in 11 partite. A giugno debutto in nazionale, battiamo 2-0 il Brasile e segno. Passano 5 giorni e il mio agente dice che hanno chiamato un po' di squadre dall'estero. Gli faccio: quali sono? E lui comincia: il Milan… Lo fermo subito: bene, andiamo. Le altre non le ho mai sapute. Giocavo in B e mi volevano nel campionato di Zico e Platini. Che me ne fregava di sapere le altre?».
Così pare una storia d'amore.
«Lo è stata. Liedholm fu l'incontro perfetto. Il mio papà italiano. Dopo l'allenamento si fermava a parlare, voleva sapere di me, della famiglia. Il suo più grande insegnamento fu che la routine sembra noiosa ma alla fine ti migliora. Eh, il Milan è una cosa enorme, spero se ne renda conto chi ci gioca oggi».
Balotelli ha fatto bene a tornare?
«Non lo so, e non lo sa neanche lui. Sta cercando una soluzione. Balotelli ora è un enigma ma nel calcio le cose cambiano in fretta, questo è il suo fascino, la sua complessità. Ha talento e colpi fantastici. È giovane: se non esplode a Milano, non so se gli ricapiterà altrove ».
Le piaceva essere chiamato Attila?
«Tantissimo. La gente non pronunciava bene il mio cognome. Si dice: Het'ly . Ma voi italiani dite: Att'ly . Avevo un gioco fisico, e così Att'ly , Att'ly , Attila. Sapevo bene che era un guerriero, a scuola in storia avevo ottimi voti. Storia, lingua inglese e geografia».
A proposito di geografia. Ricorda Catanzaro?
«Castel...? Catan...? Com'è lo spelling?».
C-a-t-a-n-z-a-r-o. Nel sud. Disse che era un buco, che aveva le peggiori case che si potessero immaginare. La definì più brutta di Manchester.
«Oh, Catanzaro, certo. Io ho detto così? Non può essere vero. E poi Manchester è una città bellissima». (ride
Cos'era l'Italia del 1984 per un inglese di 23 anni?
«Un posto folle. Ogni cosa riconduceva al caos. Irresistibile. Il 70% del fascino dell'Italia viene dalla sua gente, dalla sua maniera di stare al mondo, di guardare la vita, e il football. La bellezza dell'Italia ti schiaccia. Venirci a 23 anni è stata una salvezza».
Perché?
«Perché c'era una differenza enorme con noi, intendo nella cultura. Mio padre disse: se vuoi imparare, devi andare. La cultura italiana mi ha reso professionista. Ho imparato a mangiare, a gestire il corpo, ad apprezzare un vestito di Armani. In Inghilterra dopo la partita si correva a un party, l'Italia mi ha insegnato che una birra fa male anche dopo il 90'. Casomai meglio un bicchiere di vino in famiglia. Quando sono arrivato, non sapevo neppure cosa fosse il vino. Non l'avevo mai assaggiato».
Cos'è che dell'Italia non ha capito?
«La politica. Dirigenti, staff, presidenti. Tutti ne parlavano, tutti la legavano al calcio. Inspiegabile. Forse ero troppo giovane, forse ero troppo straniero».
C'è qualcosa che le manca?
«Non vivo nel passato, sono felice, a che serve pensare dove sarei arrivato senza infortuni? Ma il mio ristorante preferito a Glasgow è italiano. Cento per cento. È pieno di foto di calcio alle pareti. Ce n'è anche una mia con la maglia del Milan. Ecco. Se proprio ne ho voglia, ogni tanto, a cena ci butto un occhio».

(la Repubblica, 10 settembre 2015)

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