venerdì 18 settembre 2015

Quando l'Unità stroncò il suo collaboratore Italo Calvino

Il 6 agosto del 1952, sulle pagine dell’Unità, Carlo Salinari torna sull’uscita de Il Visconte dimezzato, la prima opera della trilogia dei nostri antenati di Calvino. Lo fa in sostanza per stroncare il romanzo, che aveva aperto un dibattito vivace dentro il Pci. Calvino all’epoca non ha ancora compiuto trent’anni. Ha già pubblicato, tra le altre cose, Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo. Soprattutto, proprio per l’Unità neppure un mese prima era stato inviato alle Olimpiadi di Helsinki, e da lì aveva scritto dei magnifici reportage. A trent’anni dalla sua morte, l’articolo dell’Unità d’allora.

Calvino ha scritto una favola […] Appena uscito il libro autorevoli critici dei giornali e delle riviste indipendenti hanno esultato: com’è bravo Calvino! “In questo libro non c’è né idee né propaganda politiche: Calvino vi è artista e non uomo di parte”. E poiché un nostro compagno su Rinascita, ha osato esprimere delle riserve, ecco gli stessi critici usare le parole grosse: “E’ un libro – hanno detto – che non doveva essere scritto, e che perciò non dovrebbe essere letto: da mettere all’indice, non della Chiesa, ma del Partito, poiché Calvino è comunista”. “Calvino sotto accusa?”. Povero Bellonci! Da trent’anni a questa parte il destino ha voluto che perdesse sempre le occasioni buone per stare zitto.
Certo questo libro probabilmente non sarà letto, migliaia e migliaia di persone (operai, contadini, intellettuali) che hanno apprezzato Il sentiero dei nidi di ragno probabilmente non leggeranno Il visconte dimezzato. Tuttavia la cosa non sarà dovuta a un Indice che non esiste, e nemmeno all’opinione che può esprimere questo o quel critico comunista, ma a un’altra ragione un pochino più complessa.


Qual è il difetto fondamentale di questo libro di Calvino? Forse il suo carattere di favola? No, perché – e in questo sono d’accordo con Bellonci – il suo temperamento di scrittore lo porta naturalmente verso una simile forma d’espressione. Forse il fatto che è scritto male? No, perché vi sono pagine molto belle, composte con quella grazia e arte di scrittore, che fanno di Calvino il giovane più dotato del dopoguerra: “Quella notte, Medardo tardò a dormire. Camminava avanti e indietro vicino alla sua tenda e sentiva i richiami delle sentinelle, i cavalli nitrire e il rotto parlar nel sonno di qualche soldato. Guardava in cielo le stelle di Boemia, e pensava al nuovo grado, alla battaglia dell’indomani, e alla patria lontana, al suo fruscio di canne nei torrenti”. E vi sono anche figure simpatiche come quel dottor Trelawney.
Il difetto fondamentale è che l’ispirazione della favola non parte dalla nostra realtà, da problemi sentimenti e idee che sono patrimonio comune della nostra esperienza, ma da una suggestione e da un gusto di derivazione intellettualistica e culturale. E mi spiego meglio. Una volta uno studente mi portò alcune sue poesie: ve ne erano di buone e di cattive, come capita. La più brutta di tutte, però e anche questo capita), era proprio quella che l’autore riteneva la più bella: una lirica in cui si cercava di esprimere il tormento del dubbio che in lui, seminarista, si affacciava della divinità. Gli feci osservare che era la meno riuscita anche perché i sentimenti che in essa si cercava di esprimete non erano più oggi dei sentimenti storici, ma potevano costituire solo il dramma – sia pure sinceramente sofferto e rispettabilissimo – di alcune coscienze individuali. E volevo dire che ogni periodo storico ha dei nuclei di problemi che tutti gli uomini – direttamente o indirettamente – si affannano a risolvere. Da questi problemi scaturiscono atteggiamenti, idee, che non hanno più nessuna effettiva funzione. E’ per questo che noi attribuiamo una particolare importanza alla rispondenza dello scrittore con la società del suo tempo, perché i grandi scrittori, da Dante a Leopardi e a Verga, si sono sempre messi al centro di quei nuclei di problemi e di lì hanno ratto la forza del loro canto e la loro universalità. E’ per questo che la libertà dell’artista non deve essere concepita in astratto, ma sempre nei limiti della sua concreta esperienza di uomo, è per questo che l’arte, quando è arte, non può non essere nazionale. E non mi si dica che si fa solo questione di contenuti: certo non bastava dichiararsi romantici per essere grandi scrittori, però tutti i grandi scrittori della prima metà dell’Ottocento erano romantici.
E torniamo a Calvino. La grazia del suo stile e il buon gusto del suo umorismo non bastano a reggere un libro. E a lungo andare questo racconto – che pure è brevissimo – finisce per essere stucchevole. Perché l’affermazione che l’uomo è un impasto di bene e di male e che sarebbe un guaio se così non fosse, la polemica (o la satira) antimanichea, contro le concezioni fanatiche e intolleranti dell’uomo e della vita, sono state al centro di un’esperienza importante compiuta nei secoli scorsi, ma oggi rappresentano un fatto scontato e, in certo senso, equivoco. Il loro ritorno può essere dovuto solo a un richiamo di cultura e di intelletto e non a un’esigenza profonda dell’esperienza umana dello scrittore. Di qui il carattere di divagazione letteraria e di pezzo di bravura che viene ad assumere questo racconto, di qui quell’inevitabile rivolgersi ed ammiccare quasi – in ogni piega del periodo, in ogni sfumatura delle parole – a una ristretta cerchia d’intenditori (a dei Bellonci in folio per spiegarci), da qui l’assenza di quell’adesione col lettore che caratterizzava Il sentiero dei nidi di ragno dove la favola di Calvino s’incontrava con un’esperienza decisiva e sofferta del nostro tempo: con la guerra partigiana.
E per questo, come dicevamo all’inizio, molti (operai, contadini, intellettuali) forse non leggeranno il Visconte dimezzato. Perché non è scritto per loro.

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