Restarono in due, ed erano abbastanza. Uno era un tedesco, Dietrich Thurau, la cui ferocia veniva mascherata dietro il nomignolo di Didi, forse perché sembrasse innocuo. Aveva vinto l’estate prima tre tappe al Tour, aveva tenuto la maglia gialla per 18 giorni e alla fine in classifica s’era piazzato quinto. L’altro era Moser, Francesco, che non aveva ancora vinto una delle sue tre Roubaix ma aveva già perso due Mondiali dietro l’altro. La Germania nel ciclismo non aveva il rispettabile peso di oggi. Nel giorno in cui a San Cristobal, Venezuela, 4 settembre 1977, Didi Thurau si trova a 3 km dal titolo mondiale, il suo paese aveva avuto solo una volta un corridore fra i primi tre del Tour de France (Kurt Stoepel nel ’34), mai nessuno al Giro e un solo vincitore in 75 Parigi-Roubaix (il primo, Josef Fischer, noto anche per le sue sfide contro i cavalli). I due campioni del mondo partoriti fin lì, Heinz Mȕller nel ’52 e Rudi Altig nel ’66, pur nella loro eccezionalità parevano finanche uno sproposito.
Moser fece gli ultimi tre chilometri per intero in testa. Come fosse stato da solo. Senza alcuna strategia. Quasi da pistard, come una gara d’inseguimento, lui che della specialità era campione del mondo uscente; anche se davanti non c’era nessun corpo da inseguire, solo un’ombra immaginaria, l’ombra delle delusioni dei due anni precedenti. Pareva un azzardo, perché Thurau era veloce. Non so se più veloce, ma veloce. Ma erano in due, lui e l'altro, ed ebbe ragione lui. Bruno Raschi sulla Gazzetta dello Sport lo celebrò così: “Il Moser che ieri ha battuto Thurau, suo valoroso compagno di avventura, sembrava perfettamente eguale al Moser che un anno fa, in circostanze che parevano identiche, si era schiantato alla ruota di Maertens al termine di una volata invincibile. In realtà una differenza c’era ed era una differenza fondamentale. Questa volta Moser aveva perfettamente indovinato la scelta, perché aveva avuto il merito e l’arroganza di imporla. Doveva essere questo, soprattutto per lui, il mondiale del coraggio. Il coraggio doveva consistere nell’inventare un’altra volta la corsa con la stessa ostinazione cosciente con la quale l’aveva inventata l’anno passato ad Ostuni. Il coraggio di aspettare l’ora giusta per partire dopo avere fiutato la ruota dei pochi avversari che avrebbero potuto batterlo in volata. (...). La sua vittoria, oltre che una grande impresa atletica, rappresenta anche un successo spirituale. Il campione ha fatto strada all’uomo, lo ha reso simpatico al mondo, lo ha fatto applaudire da tutti. Ogni analisi tecnica della sua giornata, cede spazio e sentimento a questa conclusione. Possiamo scrivere che ha vinto il più forte e che il più forte è uno dei nostri, un montanaro del Trentino al quale più nessuno conterà i giorni. Possiamo scrivere queste cose esaltando il successo di tutta una squadra con la commozione nobile da vecchio libro di lettura. La commozione che rende il ciclismo moderno eguale al ciclismo antico, il Moser di San Cristobal eguale al Binda di Adenau”.
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