Una fucilata, si disse. Forse perché Saronni vinceva sempre in volata, lasciava dietro di sé come il rumore di uno sparo, bang, e invece stavolta aveva fatto le cose in grande. Una fucilata, si disse, forse perché pochi la videro partire, e quando tutti la sentirono ormai era tardi, ormai era arrivata. Due mesi prima l’Italia di Bearzot aveva vinto i Mondiali in Spagna. Saronni a Goodwood, Inghilterra del sud, una ventina di miglia dalla Portsmouth di Dickens, chiudeva in quel modo l’estate più bella di sempre.
L’anno prima era stato bruciato sulla linea del traguardo da Freddy Maertens, lo stesso belga che nel ’76 aveva battuto Moser. Lungo il rettilineo finale proprio Moser non s’era mai affacciato in testa a tirare, il peso era caduto tutto sulle spalle di Baronchelli che ai 300 metri si era piantato lasciando Saronni al vento. Forse neppure a Goodwood Saronni si fidava o forse era solo un circuito un po’ diverso. Fatto sta che partì senza che nessuno stavolta lo lanciasse, preferì lo scatto allo sprint, scelse un gesto eretico per la sua vittoria più importante. Eretico per le sue abitudini e allo stesso tempo per il corpus letterario del ciclismo narrato come fatica e impresa. Aveva venticinque anni non ancora compiuti, sette di meno rispetto a Bruce McLaren, che nel ’70 stava testando la sua nuova M8D e poco distante dal traguardo di Goodwood andò a sbattere per sempre lungo il rettilineo, prima del Woodcote corner, fra le querce.
Emanuela Audisio era l'inviata di Repubblica nel giorno in cui vinse Saronni. La prima donna italiana a seguire un Mondiale di ciclismo. La sera prima della corsa si ritrovò su un taxi con Mario Fossati (che lavorava ancora al Giorno) e Sergio Neri. Si fecero portare al circuito, e con una torcia tra le mani scavarono nel buio e nel silenzio per scoprire come fosse il percorso, le curve, le pendenze. Repubblica non era ancora in edicola il lunedì. Emanuela fece il viaggio di ritorno con Saronni, seduta accanto a lui sul pullman e dopo scrisse un meraviglioso ritratto del nuovo campione del mondo, pubblicato il 7 settembre 1982:
Tutti se l’aspettavano: il gesto violento, improvviso. Ma in verità quella raffica breve, rabbiosa, che ha seppellito gli avversari nessuno l’ha vista bene. In un attimo sulla scia di nemici che sgranchiavano lateralmente, dove la strada sbocca in un piccolo crocicchio e da un lato comincia pesantemente a salire, Giuseppe Saronni è scattato in testa, solo, a un soffio dal titolo mondiale. Si è voltato indietro, ha visto che a quattro passi, giù in basso, gli avversari ormai luccicavano, l’americano Lemond sarebbe arrivato secondo, Kelly, irlandese, terzo. Allora la bocca gli si è aperta in una smorfia, ed è stato un ghigno sferzante, da assassino, che sapeva di aver amputato agli altri qualsiasi speranza di vittoria. […]
Il pullman attraversa di prima mattina una campagna inglese brumosa, con l’erba appena tagliata lasciata sui prati a ricoprire l’erba più giovane, affinché spuntando non si geli. E’ quello che la squadra ha fatto per Saronni in gara: lo ha protetto fraternamente perché potesse arrivare nelle migliori condizioni a dare la rasoiata finale. Non vi guarda in faccia quando parla e ha occhi troppo vispi per poter essere angelici. “Ho ringraziato Moser, ho detto che se potrò ricambierò il favore: questo non significa che lo lascerò vincere. Siamo cresciuti. Prima eravamo come due fratelli, uno giovane e l’altro più vecchio, che hanno sempre bisogno di misurarsi a braccio di ferro per vedere la forza dell’altro: non sapevamo rinunciarci o forse non volevamo, che è poi dire la stessa cosa. E’ strano che Moser abbia avuto domenica sera parole buone nei miei confronti. Ha detto che ha sempre pensato che io fossi un campione, solo che se lo teneva dentro per sé, non aveva la serenità per gridarlo forte. Ecco: tante volte se l’è presa per la mia maniera di correre, di striscio, opposta alla sua; tante volte mi ha rinfacciato le volate utilitaristiche; penso non ce l’avesse con me per questo. Gli bruciava dentro un’altra cosa: che io fossi giovane, troppo più giovane di lui. Non sopportava l’idea che io avessi tempo davanti a me, tutto il tempo che volevo. Ora ha capito che il mio modo di correre non c’entra nella polemica…”. Domenica sera quando si spegnevano gli ultimi fuochi dell’allegria Moser confidava: “Lo ammetto: fossi stato Saronni, avessi avuto come dono divino il suo sprint, beh nelle gare mi sarei comportato forse peggio di lui. Intendo che non avrei tirato una corsa, dico una… limitandomi a sguazzare felicemente in volata”.
Sembrava un albero rinsecchito Moser, di quelli che troppo hanno combattuto contro la furia del vento, aveva il volto smagrito e il morale sbrecciato, ma non distrutto. Saronni viene da una generazione diversa e diversa anche da quella di un Hinault che trovatosi vuoto di energie ha preferito all’undicesimo giro ritirarsi dalla gara […]
“Quando si vince si ha sempre più ragione degli altri e tutto torna al suo posto. Ma a chi mi parla del ciclismo antico e dei nuovi Coppi che non nascono più rispondo: sveglia, oggi si corre con le macchine, s’ingranano marce potenti, la bicicletta è sorpassata. Ma invece no… son tutti lì a pensare con nostalgia ai loro tempi. E non sanno guardarmi dentro. E non sanno capire che anche ad aspettare l’attimo finale della corsa si soffre, anche giocarsi quell’unica carta non è indolore perché dentro alla testa di chi aspetta chilometro dietro chilometro ci sono incertezze, ansie”.
E’ un giovane pratico, che non ama spolverarsi il cuore. “Vengo da una famiglia a metà fra il moderno e l’antico, i miei genitori han lavorato e fatto sport, mia madre giocava a basket, mio padre correva anche lui in bici, a tavola parliamo ma di fatti che ci riguardano da vicino: non di scioperi, di politica o cose del genere… L’ultima parola tocca sempre a loro. Da ragazzo per tre anni ho lavorato all’Olivetti come perito elettrotecnico, ce ne avrei messo tanto di tempo per far carriera… Ho smesso a 19 anni e fatto solo ciclismo perché sono un tipo che va fino in fondo alle cose. Non è vero che son vigliacco, che al pubblico concedo poco di me, che non ci sia volta che corro senza calcoli, per far piacere alla gente che si assiepa lungo le strade e che ha bisogno di emozioni forti…”.
Solo che ha fretta. “Non voglio aspettare. Aspettare che? Il rispetto per l’ìimpresa che ti sciupa le energie e poi si rivela inutile ai fini del risultato? No, grazie tante, tenetevela, io voglio afferrare quello che mi spetta subito e pazienza se sarò meno simpatico di Moser. Già in questo sport, ma sarebbe meglio chiamarlo lavoro, alla fine i conti fra dare e avere non tornano e allora non voglio star lì a recriminare un’intera vita. E quando sarò vecchio, in bici lo si diventa a 29 anni, voglio uscire dal giro, non leccarmi le mie impossibilità con l’illusione di essere ancora utile a qualcuno o di essere d’esempio. Chi se ne frega di quello. Noi corriamo tutto l’anno uno contro l’altro, con il coltello sotto la sella: mi sta bene questo spirito […] Ho vinto il mondiale, ho vinto un Giro, sono a metà strada: sento che ora tutti mi chiederanno di continuare a vincere. Se problema avrò da oggi in poi sarà questo: mantenere un rendimento costante. Quanto al resto confesso di non aver vissuto: la città, i suoi piaceri, i divertimenti, le letture, la scuola. Sto bene lo stesso, anzi benissimo. […] Per me il ciclismo è solo un fatto di prepotenza agonistica, non di sentimenti, Volevo vincere solo per una cosa, perché ero il più forte”.
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