BORDEAUX. Piace perché si butta nel fango e si sporca. Piace perché a guardarlo pare improbabile. Piace per i motivi opposti a quelli che ci portano spesso a stare dalla parte di Messi e Ronaldo. Piace perché rimette al centro della scena il calcio che il tempo ci ha tolto. Il paradosso di Gábor Király è che il suo romanticismo, i suoi quarant’anni in campo e la tuta grigia con cui gioca, sono il cibo perfetto per i predatori del marketing. Oggi diventa il calciatore più anziano ad aver mai giocato una partita in questo torneo, e tutti guarderemo i suoi pantaloni consumati, per fingere di credere ancora alla magia di questo gioco, per dimenticare che in un campionato chiamato Europeo si sfidano due paesi che l’Europa la stanno spezzando: l’Austria che vorrebbe una barriera al Brennero e l’Ungheria che ha alzato un muro di lamette e filo spinato lungo 175 chilometri al confine con la Serbia; un muro alto tre metri e mezzo, uno in più di una porta di calcio.
Király non è bello, non è Neuer e non ha vinto niente. Ma per l’Ungheria non è uno dei tanti. “Un leader, un uomo di carisma, uno che si è impegnato tanto per arrivare fin qui. Lo merita. È incredibile che l’Europa lo scopra soltanto adesso”, dice il ct Bernd Storck, 53 anni: viene dalla Germania, il paese in cui il fenomeno Király è esploso, all’Hertha Berlino prima, più di recente al Monaco. La moda del “pigiama”, come lo chiamano a Budapest, nacque all’Haladás, la squadra in cui è tornato ora a fine carriera. Inizialmente era nero. Soprattutto era comodo. “Con i pantaloncini corti mi sbucciavo le ginocchia”. Sua madre, come in una pubblicità, sbagliò candeggio. La tuta divenne grigia. Ma con quel grigio addosso, l’Haladás ne vinse otto di fila. Come si fa a non crederci. E grigio sia. Nei secoli dei secoli. Amen.
La tuta originale è nell’armadio di casa, lacera e bucata. Ma all’icona Király non ha più rinunciato, ampliando la galleria di calciatori che vanno in campo e legano la propria faccia a un capo d’abbigliamento e a un tocco di fantasia. Ribelle e glamour, Cantona portava il colletto della maglia alzato. Krol aveva le ghette bianche sopra i calzettoni e il portiere polacco Tomaszewski una fascia per tenere fermi i capelli lunghi sulla fronte. De Rossi per anni è andato in giro sui campi di mezzo mondo con una manica lunga e una tagliata. Campagnaro gioca con il paradenti. Anche una costrizione si può trasformare in tendenza, come gli occhiali scuri di Davids dopo l’operazione di glaucoma e il caschetto in gommapiuma di Cech per la frattura al cranio. Scrive l’antropologo Bruno Barba in “Calciologia” (Mimesis) che “il calciatore porta sul terreno di gioco indumenti specifici che lo caratterizzano e anzi lo identificano, ma è anche costretto, inconsciamente naturalmente, a “selezionare” le parti del suo corpo che gli serviranno”. Király ha scelto i piedi. Spesso para come in Italia faceva Garella. Non è la réclame della grazia, lui lo sa e sa pure cosa rispondere: “Sono un portiere, non un top model”. Peter Csillag, il giornalista ungherese che vota per il Pallone d’oro, dice che “negli ultimi trenta anni da noi non ci sono stati idoli perché il calcio era calato di livello, ma Király è il simbolo di chi non si arrende. A 40 anni è nella miglior forma della sua carriera: come il vino è migliorato invecchiando”. Dove debuttare, se non a Bordeaux.
(da la Repubblica del 14 giugno 2016)
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