L'ULTIMO gioco di prestigio non è riuscito. Il Belgio va agli ottavi con un gol che pare un drop rugbistico di Nainggolan e trova l'Ungheria; la Svezia lascia gli Europei e Ibrahimovic la Nazionale. Zlatan ha chiuso regalandosi la lentezza, durante la partita e dopo, passeggiando per il campo e battendo con flemma le mani al muro giallo di svedesi venuti a Nizza per dirgli addio; e poi uscendo prima dei compagni, con la fascia da capitano sfilata.
Contro un Belgio sempre più calato nella parte della squadra femmina, contropiedista, con De Bruyne che sconfina a sinistra per mangiare i palloni di Hazard, Ibra si è goduto tutto. L'ingresso in campo con i bambini. La moglie in tribuna. Il principe ereditario Carlo Filippo venuto fin quaggiù con la sciarpa al collo. L'inno nazionale, "du gamla, du fria", tu antica, tu libera, anche se stavolta non l'ha cantato; otto mesi fa ne aveva inciso una versione disco per lo spot d'una macchina, tre milioni di visualizzazioni e disco d'oro.
È stato per il calcio quel che Borg fu per il tennis. Qualche svedese sostiene finanche qualcosa di più. Ha sparso 62 gol e bellezza innumerabile nell'arco di 15 anni: quando cominciò ne aveva 20 e portava i capelli sciolti. Si dicono grazie insieme, lui e la Svezia, il paese che gli ha dato un passaporto, un servizio sanitario, una scuola da frequentare quando suo padre, musulmano di Bosnia, portò tutti lì, con una moglie sposata in fretta per avere senza troppi intoppi il permesso di soggiorno, con cacciaviti e arnesi in tasca per fare il manutentore nei condomini. Ibra va via due volte dalla Francia, esce dall'Europeo dopo aver lasciato già il Psg. Andrà forse a infilarsi nella bocca dei tabloid inglesi, dopo i cattivi rapporti con Parigi per non aver voluto imparare la lingua, per non aver smussato gli spigoli alle sue espressioni.
Ci sono molti modi di crescere e altrettanti di invecchiare. Nei 35 anni di Ibrahimovic non c'è spazio per mediazioni o compromessi, è ancora tempo di trincee, magari un giorno la voglia di pacificazione gli verrà. Dopo i due gol a Bulgaria e Italia nel 2004, i due a Grecia e Spagna del 2008, i due a Ucraina e Francia del 2012, il suo quarto Europeo si chiude con un destro calciato fuori dopo 26 minuti, un colpo di testa dopo 50, uno stop di petto che sa far diventare un passaggio, una punizione parata da Courtois. Se gioca da boa la palla non gli arriva, se va a prendersi la palla non c'è nessuno a cui darla. La palla in porta in realtà l'avrebbe finanche messa, ma dopo una gamba tesa di Berg. Più che la compagnia di qualche campioncino d'Europa U. 21, gli sarebbe servita quella di Fimpen, il baby prodigio che in un film per ragazzi del ‘74 lasciava le Elementari per mettere la maglia della Nazionale, sognando i Mondiali. I prossimi Zlatan li vedrà da casa. «I Mondiali senza di me? Non ha senso vederli» disse prima di quelli in Brasile. Dovremo farcene una ragione. Lo sguardo più bello di un regista è sempre su un amore che esce di scena.
(su Repubblica il 23 giugno 2016)
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