sabato 11 giugno 2016

Il calcio visto da Calais


CALAIS. IL poliziotto all’ingresso è di cattivo umore. Dice che c’è bisogno del permesso. «La firma. In prefettura». Impugna la radio e cerca una sponda per farla finita qui. Intravede un pallone bleu dentro una busta gialla. Lo prende. «Un italiano con un pallone della Francia». Ne ride. Dice che lui a palleggiare è bravo, bravissimo, che gioca nella squadra regionale della polizia e che hanno vinto questo e quello. «Lei è un buon centrocampista. Si vede dalle gambe arcuate». La vanità è l’anello debole della burocrazia. La radio si spegne. D’incanto si può passare.
Il calcio visto da Calais è molte cose insieme, tranne la retorica del meraviglioso strumento in grado di abbattere i muri. Ce la raccontiamo così tante volte questa storia del pallone che va oltre le barriere, e quasi ce ne convinciamo. Invece se ne stanno in cinquemila stipati qui dentro, a dicembre erano molti di più, in questo ghetto di nulla, più inesorabile di qualunque altra baraccopoli al mondo, senza alcun contatto urbano, neppure il piacere dell’ostilità, e il calcio non abbatte proprio un bel niente. I rifugiati di Calais sono schiacciati alla fine di un vialone, lungo il quale s’incontrano solo ciminiere e aziende del polo chimico, a ridosso dell’imbocco autostradale. Chi ha voglia di uscire, passeggia tra l’odore degli smalti. Per la città sono trenta minuti a piedi. Ma ai disperati della Jungle non interessa nemmeno più. A sei minuti di macchina c’è il vecchio stadio Julien-Denis da duemila posti del Racing Calais, tra una macelleria halal e un pizzaiolo americano. Qui nel 2000 l’Europa intera s’innamorò di una favola, bella come quella del Leicester. I dilettanti di Calais, trecento spettatori di media a partita, si spinsero fino alla finale di Coppa di Francia, contro il Nantes, c’erano 80mila persone a Saint-Denis. Andarono in vantaggio, persero con un rigore al 90’. Il capitano del Nantes volle sollevare la Coppa insieme a quello del Calais, Réginald Becque. Ma a sentire il nome di Calais, sedici anni dopo, l’Europa si volta. Domani è annunciata la visita al campo di Steve Bassam, laburista inglese della Camera dei Lord. Viene con sua moglie e porterà magliette, scarpe, palloni. Ha invitato tutti gli stramilionari dei campionati europei a spedire qui i loro colori, lo stesso ha fatto con le 24 nazionali arrivate in Francia. Per Calais si sono mobilitati i tifosi del St. Pauli. I dilettanti inglesi del Dulwich Hamlet hanno spedito vestiti. A Luton è stata organizzata una partita di beneficenza. Tutto qui.

Mentre da oggi ogni gol diverrà esaltazione del foot-nazionalismo e delle politiche d’esclusione, da Orbán in Ungheria a Fico in Slovacchia, da Erdogan in Turchia a Putin in Russia, nella Jungle c’è un pallone verde sgonfio, abbandonato tra i rifiuti. Il campo di calcio è trecento metri oltre l’ingresso, davanti a tre croci di Cristo, nell’area in cui i ragazzi prendono lezioni di francese e di inglese dai volontari delle associazioni che operano nella Jungle Books. Un centro per bambini, partite a carte, giochi di società. «Ma io preferisco il cricket», mormora Sefu. È lo sport più praticato dai cinquecento ragazzi che vivono qui. A calcio in genere si gioca di sabato, con il Ramadan dopo il tramonto. È troppe cose insieme, il calcio a Calais. È il superfluo di un mondo lontano. «Lì c’è una tv collegata su Al Jazeera, ma delle partite non mi importa», scrollano le spalle Amir e Ismail, sudanesi, hanno passato il confine con la Libia e in barca sono arrivati in Italia. Il calcio serve a dimenticare. «Tiferò per la Francia, anche se non ci vogliono», dice Rashid, «i francesi passano di qua solo per farsi le foto, come se fosse un pic-nic». Il calcio serve a sognare. Hassan è afghano e ha sedici anni. «Giocavo nelle giovanili dell’Oqaban, sono partito perché voglio andare in Inghilterra. Ho dei parenti ». Tutti hanno parenti in Inghilterra. Sperano sia una scorciatoia. Hassan studia inglese da dieci giorni. Impara in fretta. «Perché devo giocare in Premier. Ogni tanto da casa i miei mi chiamano. I compagni dell’Oqaban vogliono che torni. E tu Messi lo hai visto mai?». La sua rotta: Afghanistan, Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, Slovenia, Austria, Germania, Francia. «Figurarsi se torno indietro. Due miei cugini sono in Italia. Ho già provato due volte a saltare di notte sui camion che vanno dall’altra parte. Prima o poi ci riesco».

I profughi sono diventati tanti piccoli architetti dei loro spazi forzati. Hanno arredato tende, baracche di cartone, una è diventata il Kabul Restaurant. Convivono quindici nazionalità. Chiese cattoliche, una moschea, un teatro. Con un euro compri un uovo oppure tre naan, il pane afghano. Si vendono pile e carica batterie per smartphone. Nella tendopoli a maggioranza irachena hanno montato un cesto di basket. Era un rifugiato il primo calciatore spagnolo in Inghilterra. Emilio Aldecoa aveva 14 anni quando scappò con altri quattromila ragazzini baschi da Francisco Franco e dalla guerra civile. Bill Perry ne aveva 19 quando fuggì dall’apartheid di Johannesburg per mettersi la maglia del Blackpool, accanto a Stanley Matthews, e segnare il quarto gol del 4-3 al 92’ contro il Bolton, finale di Coppa d’Inghilterra del ’53. L’associazione Play4Calais ha lanciato una raccolta fondi per dare una sistemata al campo di calcio. Hanno raccolto 13mila sterline. Ieri grazie a loro è stata una lunga giornata di partite di calcio, dentro la Jungle. Hassan si chiede cosa sia la felciità. «Fuori di qui? Giocare a calcio a Londra». E qui dentro? Ci pensa. Ci pensa. Il tempo non passa mai. «Qui dentro fare due chiacchiere con qualcuno».

(da la Repubblica dell'11 giugno 2016)

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