Nell'Europeo e nell'Europa dei body scanner e dei metal detector montati negli stadi, dopo il sangue lasciato dalla violenza ultrà sulle strade del Vieux Port di Marsiglia, ci sono pure bambini che si proteggono dal rumore, con queste cuffie giganti da una dozzina d'euro sulle orecchie. Ci sono padri che passano la palla, fanno gol e vanno a prenderli in braccio, come in milioni di case succede la sera quando il lavoro è finito e come fa l'islandese Skulason con due creature di neppure un paio d'anni. Il bimbo guarda altrove, deve essersi appena svegliato. Uno stadio in cui a pochi mesi di vita si può dormire placidi. È il calcio che i presidenti raccontano ogni domenica di volere, salvo arrendersi agli scherani della violenza, oppure peggio restare immobili, senza idee, in una prateria di iniziative possibili. C'è uno spazio da riprendersi, come raccontano albanesi e svizzeri insieme sui treni a Lens, belgi e irlandesi uniti ai tavoli di Bordeaux nel nome del pallone e dei boccali, gli islandesi che fanno festa proprio a Saint-Denis — il caso si diverte sempre — nello stadio del terrore di novembre. C'è uno spazio da riempire, come raccontano le foto degli islandesi su Instagram, bimbi con un ciucciotto, una tutina, un pannolino, uno steward che lascia oltrepassare le barriere senza cupezza, senza paura. È il ritorno degli oggetti normali e della vita quotidiana dentro uno stadio, dove l'ordinario lo abbiamo bandito, dove un tappo di plastica di una bottiglia è un pericolo, dove un piacere come una birra diventa una minaccia. La magnifica bellezza della banalità.
(su Repubblica il 24 giugno 2016)
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