sabato 11 giugno 2016

De Biasi e i figli della diaspora albanese

SEICENTO imprese e ventimila lavoratori italiani a Tirana, dove non ci sono sindacati e le tasse restano sotto il 15 per cento. Imprenditori medici e cuochi, più un c.t. veneto che ha portato per la prima volta la nazionale fra le grandi del calcio. Uno studio di architetti fiorentini progetta il nuovo stadio d'Albania che tanto sta a cuore al premier socialista Edi Rama. Gianni De Biasi, figlio di un commerciante di Sarmede, il paese delle favole, ha già fatto di più. Con 21 ragazzi raccolti in 10 campionati stranieri, compreso Liechtenstein e la nostra C, dopodomani guida contro la Svizzera il debutto di una federazione che ha un budget da 7 milioni di euro: meno del biennale di Conte. Solo in due giocano in patria, i portieri di riserva. «Quando mi contattarono la prima volta, ero in bici. Accostai, parlammo, non ero convinto. Che ne sapevo dell'Albania? A me piace essere parte di un ambiente: granata a Torino, bresciano a Brescia, modenese a Modena. Mi sono messo a studiare la storia e gli anni del regime. Oggi il mio lavoro è anche esportare l'Albania. Mi hanno dato cittadinanza e passaporto. Ne vado fiero».
Come si fece convincere dopo la prima telefonata?

«Ci vedemmo a Milano. Avevano un bene raro da proporre. Non un progetto, come dicono in tanti, ma un'avventura da vivere. Fu decisivo sapere che potevo scegliere uomini, metodi, tutto. Potevo fare il mio mestiere come piace a me. In Italia non ci siamo abituati. Gli allenatori non hanno più voce in capitolo. Si decide tutto altrove».

La prima immagine dell'Albania?
«Un flash. Quella nave al porto di Bari nel ‘91. La gente sui pennoni. Un paese stremato. Allenavo le giovanili del Vicenza. Oggi l'Albania è un paese con il 70% di musulmani, il 20% di ortodossi, il 10% di cattolici. I miei ragazzi sono kosovari, macedoni, molti sono cresciuti in Svizzera. Abbiamo dato una maglia comune ai figli della diaspora. Vengono da realtà differenti, vogliono riprendersi il tempo perduto. La carne era il motivo della partenza dei genitori. Non sono andati via per star meglio ma per vivere. Ora la mia squadra è una proiezione in campo del sogno di Bruxelles. L'Europa dovrebbe tifare per noi».

Come Ranieri a Leicester, anche lei lascia all'avversario il possesso palla.
«Certe volte è una necessità, in altri casi astuzia. Per anni il contropiede è stato denigrato. Per snobismo. Molti pensano che sia facile giocare così, invece devi far muovere tutti insieme per aprire spazi. Una squadra può essere bella in più modi. C'è un calcio fatto di spregiudicatezza e uno che può affascinare con gli 1-0. Il concetto di spettacolo è relativo, in genere lo stabiliscono Caressa e gli altri in tv. Però sono i grandi giocatori che fanno la differenza. Se hai Messi Neymar e Iniesta, diventa facile essere belli».

Perché l'Italia ha così pochi campioni?

«Ci siamo involuti. È sempre meno possibile giocare in libertà. Un Baggio emerge perché ha giocato a lungo in strada senza costrizioni. Tutti i più grandi talenti sono nati in contesti di povertà. Forse siamo diventati troppo benestanti, abbiamo inseguito troppo la ricchezza, per meritarci un regalo del genere dal calcio».

Cosa ha provato nel sapere d'essere in corsa per il dopo Conte grazie al lavoro in Albania?
«Un piccolo senso di rivalsa, come Ranieri in Premier. In Italia si accorgono solo delle cose straordinarie. Siamo ancorati al nostro stivale, convinti che il calcio esista da noi e basta. Invece altrove consente finanche di lavorare meglio. In Italia dopo due pareggi ti ritrovi a casa. Noi speriamo di passare il girone. Ma in Albania il calcio è un fattore di gioia. È uno dei mezzi con cui il popolo vuole tornare a vivere. La gioia di essere qui non ce la toglierà mai nessuno».

(su Repubblica, 9 giugno 2016)

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