Tra le mille cose che il calcio da solo non riesce a spiegare, c'è questa allergia fra il giocatore più bravo al mondo - candidato qualche volta al titolo di sovrano di ogni tempo - e la sua nazionale, o forse il suo paese. "Avrei voluto portare un titolo in Argentina, me ne vado senza esserci riuscito" dice adesso Messi, mentre Olé - quotidiano sportivo di Baires - lo mette in ginocchio in prima pagina, le mani sul prato, la faccia nascosta e lo scongiura, non te ne andare, giocando con le parole, "lo veo y non lo leo", dopo la sconfitta con il Cile. Se Pelé aveva vinto con Garrincha Jairizinho e gli altri due mondiali da protagonista e uno da infortunato; se Maradona ne ha vinti quasi due tutto da solo, Messi rimane un assetato di gloria patria, un collezionista di Palloni d'oro che si prosciuga quando di mezzo c'è la sua bandiera. Adesso dice "mi fa male perdere, per me è finita, la decisione è presa", sfilandosi per sempre la fascia da capitano e la maglia a strisce della Selección, un'altra tragedia che il calcio argentino mette in scena in terra d'America. L'ultimo pianto di Messi cade a duecentotrenta miglia e ventidue anni di distanza dal giorno in cui a Boston Diego fece la sua pipì mondiale con l'efedrina dentro. Era il 25 giugno, per Messi il 26.
Adesso la masnada gli grida che non è un campione, vergognati Leo, pure dei gol che hai fatto e della tua bellezza, mentre l'opinionismo di una nazione intera è spiazzato e spaccato, diviso tra la necessità di trovare un colpevole per oltre un ventennio di fallimenti e la paura di ritrovarsi davvero all'improvviso senza nemmeno Leo. Sempre che la Fifa sia d'accordo, sempre che gli sponsor e le tv che gonfiano il pallone pompando miliardi di dollari nel sistema diano il loro consenso a questo addio e a un Mondiale fra due anni in Russia senza Messi né Ibrahimovic, senza neppure la certezza che ci sia Neymar con il Brasile, o quel che ne rimane.
In New Jersey è finita come in Cile un anno fa e come due in Brasile. Come in Sudafrica nel 2010. Come in Germania nel 2006, quando Leo era il nuovo prodigio che l'Argentina regalava agli occhi del mondo. Era il nuovo genio, era l'Erede designato. Ma questa storia dell'Erede invece lo ha schiacciato. "Messi fa in un anno quel che Maradona fece per un mese in Messico", è il giudizio su di lui di Jorge Valdano, il nume letterario del calcio d'Argentina, "ma avrebbe bisogno di un paese umiliato per arrivare su un cavallo bianco a vendicarlo". Invece non c'è più quell'Argentina afflitta che aspettava un profeta, un messia, un segno dall'alto, per riscattare le Malvinas e chissà cos'altro. Trent'anni dopo la mano de dios, l'Argentina sembra di nuovo quel posto dove le cose migliori sono già passate. "Se perdono, meglio che non tornino" aveva detto alla vigilia Maradona per distendere un po' l'ambiente. Un anno fa diede a Messi del pecho frìo, un senza-cuore, gli diede dello svedese pensando che fosse il peggior insulto possibile. Lo era per lui e per la sua idea di calcio tutta sangue e viscere. Il cattivo rapporto di Messi con la nazionale in fondo sta tutto qui, nella incapacità e nel rifiuto di voler essere qualcosa di più che un calciatore con il numero 10 dietro le spalle. Uno che segna, che vince, che perde, che sbaglia. Un uomo, non un dio.
È più semplice oggi non perdonare a Messi l'inno mai cantato, la ricerca in Spagna di una cura e di un'altra vita, la sua diserzione da quel campionato magico e folle che si tiene in Argentina, dove non è mai stato la bandiera di nessuno, non è mai stato amato dentro la Bombonera né temuto al Monumental, o viceversa. È più facile oggi pensare che Messi sia il campione di nessuno, un panno color biancazzurro buono da calpestare nei giorni del disastro. E allora lui dice ciao, me voy, per il bene di tutti, a nome di una meravigliosa generazione d'oro piena di titoli di latta.
Succede così che Messi assomigli molto da vicino alla proiezione sul pallone dell'immagine di un paese intero, "l'Argentina è una promessa che non sarà mai mantenuta", come si usa dire nella terra degli aforismi e delle contraddizioni. Va a finire che scopriamo che il calcio è una cosa seria.
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