domenica 19 giugno 2016

Noi e quelli venuti dal freddo

Stenmark e Thoeni
QUELLI del Gre-No-Li erano quasi più italiani di noi. Green e Nordahl avevano fatto gol e vinto scudetti per il Milan, Liedholm iniziava a farsi conoscere in panchina portando il Varese in A. La Svezia era materia quasi esclusiva delle élite. I film di Ingmar Bergman, la terza via in politica di Olof Palme. Finché arrivarono quei due e la resero ai nostri occhi una nazione pop. Gli Abba cantavano, loro ci tagliavano la strada nello sport. Noi avevamo Panatta, loro Borg. Noi avevamo Thoeni, loro Stenmark. Se ne inventavano sempre una, benedetti svedesi. «Eppure avevamo un vantaggio. Ovunque fossimo, ogni due o tre settimane noi italiani potevamo tornare facilmente a casa a rifare la valigia. I loro inverni non glielo consentivano. Dovevano dare più di noi per emergere». Gustavo Thoeni aveva 24 anni quando la rivalità col diciottenne Ingemar dalla faccia d'angelo divenne «la sfida del secolo», così la chiamarono i giornali, alla maniera della boxe. Non era boxe, per fortuna, lì già avevamo preso una lezione: su un ring a Bologna, una ventina d'anni prima, Johansson - altro Ingemar - aveva portato via l'europeo dei massimi a Franco Cavicchi, detto il "nuovo Carnera".
Val Gardena, 1975, uno slalom parallelo decide la Coppa del mondo di sci. La sera prima Thoeni mangia stracciatelle, vitello arrosto, un gelato e va a dormire prima delle dieci. Da casa sua racconta: «Passai parte della notte a pensare cosa avrebbe fatto lui. Il clima era teso per delle contestazioni, scivolò, uscì di pista». Quarta Coppa per Gustavo. «Stenmark era solitario, non c'era neppure modo di starsi antipatici. Gli invidiavo il fisico. Era sempre in forma. Ci siam rivisti in Val Gardena poco tempo fa, abbiamo parlato in una sera più che in tutti gli anni della nostra rivalità. Gioca a golf, ogni tanto qualche azienda lo invita a un evento. È cambiato tanto, è loquace e mi sono accorto d'essere cambiato anch'io. Prima non le dicevo mica, tutte queste parole».
L'altro era ancora più orso, fin dal nome, Bjorn. La Svezia aveva fatto irruzione nel tennis proprio dopo una vittoria in Davis con l'Italia, 1962, il primo match dato in diretta dalla loro tv: Lundqvist- Schmidt contro Pietrangeli-Sirola, 9-7 al quinto. Un popolo impazzito, il governo pure. Montarono muri di gomma alle spalliere nelle palestre, il tennis divenne materia scolastica. Ogni bambino andava a provare. Borg non nacque lì per caso. Divenne indomabile. Eppure l'unico a batterlo al Roland Garros fra ‘74 e ‘81 fu Panatta. «Sapevo come fargli perdere il filo del suo palleggio». Sei vittorie nei primi 10 confronti. Ma Borg avrebbe cambiato per sempre il suo sport, col rovescio a due mani, i capelli lunghi, la fascia tra i capelli. Non c'era più soltanto Anita Ekberg tra i sexy symbol venuti dalla Svezia.
Anni di rivali svedesi anche nel ciclismo. Giovanni Battaglin vinse il Giro del 1981 a trent'anni per poco più d'un soffio, 38" su Tommy Prim. «Un bel duello. Un ragazzo d'oro, sorridente, garbato. Non eravamo mica come Saronni e Moser» dice da Marostica. Gosta Petterson aveva vinto il Giro del '71, Berndt Johansson era andato sul podio nel '79. «Berndt è stato pure mio gregario. Avrei potuto chiedergli di tutto, anche di farsi prendere a calci nel sedere e non avrebbe detto basta. Un po' tutti gli svedesi erano così. Generosi, tranquilli. Ibrahimovic lo vedo in tv e mi pare l'opposto. Ma forse sono diversi sport e tempi». Thoeni la vede così: «Ibra ha radici diverse. Ingemar veniva dal nord, dove d'inverno è buio. La gente che nasce lì vive di distanze, chilometri senza paesi, per forza è diversa da chi viene dal rumore». Noi e loro, come agli Europei di volley del 1989, quando iniziò il ciclo d'oro di Velasco. Noi e loro, ancora, come stasera.

(su Repubblica il 17 giugno 2016)

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