Ultima pregunta, disse la signorina. L'ultima, davvero. Javier Alejandro Mascherano aveva alzato la coppa ormai da un'ora oltre il profilo disegnato dalla Boogertman & Partners per lo stadio Soccer City, e nel cielo aveva spinto le braccia su, più su - le sue e quelle di tutta l’Argentina campione del mondo - oltre Hillbrow, oltre Sentech Tower, con la forza innaturale e misteriosa di un uomo appena uscito da una pagina di Cortàzar. Un’ora. E da quell’istante Messi stava seduto lì, davanti al microfono, a rispondere, a rispondere, e ancora a rispondere. A raccontare come aveva trasformato il sinistro in un punteruolo per il gol dell’uno a zero, come lo aveva modellato in un cucchiaio per la punizione del due a due, come la testa era diventata miracolosamente lignea per il colpo del tre a due, e come aveva trovato la forza per partire da centrocampo, allungare il passo davanti a Gerrard, saltare Lampard, accelerare di fronte a Glen Johnson, scartare Ashley Cole, fare il tunnel a Rio Ferdinand e finalmente mettere la palla in porta, pareggiando così al 94’ il gol di mano - sì di mano – segnato da John Terry. Argentina-Inghilterra 4-4, la finale più incredibile della storia. E non era finita.
Ai rigori segnarono tutti. E segnarono tutti anche a oltranza. Argentina-Inghilterra 15-15. Tanto che si dovette ricominciare daccapo. Secondo giro. Fu allora che Rooney sbagliò, Messi rimise la palla sul dischetto e fece l’unica cosa che il portiere inglese non s’aspettava. Tirò col destro, fumandosi in un momento solo tutte le precedenti pazzarie mai viste su un campo di calcio. I cucchiai, le paradinhe e le manididdìo. Gol. Finito. Argentina 16, Inghilterra 15.
Si capisce che ci volle più di un’ora per parlarne, per questo l’hostess stremata disse Ultima pregunta. Leo - attaccò uno in fondo alla sala - ora ti senti finalmente più grande di Diego? Diego era lì, la sedia accanto, e fece sì con la testa. Pure Leo mosse la testa, ma per fare segno di no. Si schiarì la voce, avvicinò il microfono alla bocca con la mano destra e mormorò, Me voy en Napoles. La traduttrice non capì, poverina non poteva, non si pose il problema, e come se stesse annunciando che Cristoforo Colombo aveva fatto la scoperta dell’America insieme a quella dell’acqua calda, rilanciò: I am going to Naples. Vado al Napoli.
In sala non ci fu neppure una sedia in grado di restare al posto suo, e l’ultima pregunta diventò la prima di altre cento e forse mille sparate tutte insieme da quella folla di signori con un cartellino al collo che chiedeva di saperne di più. Tutto in diretta via satellite, l’ha detto la televisione, allora è vero. Messi al Napoli. E dieci secondi dopo giunse notizia che un ristorante aveva inserito nel menu la pizza Messi; che un maestro di musica aveva composto un inno dal titolo “E Lionello è meglio ‘e Pelè”; che c’erano code fuori le ricevitorie per giocarsi il terno secco 10-Messi, 38-la pulce e '72-'a meraviglia; che una sfilata di ciucci vestiti d’azzurro si stava incamminando verso il Vesuvio; che i cinesi avevano venduto non si sa quanti quintali di fuochi d’artificio e se li stavano sparando a mare; che nei festeggiamenti uno aveva sparato a un altro in mezzo a chissà quale quartiere; che una tv locale stava trasmettendo tutti i gol dell'argentino catturati su youtube e messi in onda; che il presidente De Laurentiis voleva costruire uno stadio nuovo in mezzo al golfo. Le solite cose, insomma.
Leo spiegò che aveva pagato di tasca sua la clausola per rescindere il contratto col Barcellona. Perché voleva diventare più grande di Diego. E per diventare più grande di Diego doveva passare da Napoli. “Per far rivincere lo scudetto alla città?”, gli chiesero. No, fece lui con la testa. “Per farle vincere la prima Champions?”. No, fece lui con la testa. “Allora per farle vincere scudetto e Champions?”. Ma no, ma no. Fu allora che finalmente Leo spiegò. Diego gli aveva parlato di Napoli. Della città. Dei suoi fantasmi. Dei suoi corpi. Delle sue perle. Dei banchi di pegno. Della sua storia. Della sua miseria. Dei suoi incanti. Della sua puzza. Delle sue sirene. Dei suoi mostri. Delle sue femmine. Dei suoi femminielli. Delle sue ville. Delle sue baracche. Del suo cuore. Del suo sangue. Della sua merda. Dei suoi boia. Dei suoi artigiani. Dei suoi imbroglioni. Dei suoi sarti. Dei suoi magliari. Dei suoi barbieri. Ecco, disse Messi. Ecco perché vado a Napoli. Se voglio diventare più grande di Diego, non posso più andare avanti con questi capelli. Ho bisogno di un bravo barbiere.
1 commento:
Grande, io il terno me lo gioco
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