sabato 5 giugno 2010

Nasser Hejazi, il portiere dell'Eden

nasser Guardai l'orologio in cima allo stadio e capii che era fatta. Stavamo battendo l'Australia 1-0, i ragazzini si abbracciavano e noi andavamo per la prima volta ai mondiali di calcio. Noi, i persiani che lo scià aveva invitato da una quarantina d'anni a cambiar nome. Andavamo ai Mondiali come iraniani, lo scià voleva che ci sentissimo finalmente una nazione nuova. In tribuna sedeva il principino Reza Ciro, l'erede al trono che i Pahlavi avevano aspettato e aspettato e aspettato.


Hejazi nella partita contro l'Australia per la qualificazione ai Mondiali del '78
Hejazi nella partita contro l'Australia per la qualificazione ai Mondiali del '78
Aveva diciassette anni ormai, figlio di terzo letto dello scià con Farah Diba, a sua volta figlia di un funzionario di corte, nipote di Mehdi Diba, un seyyed, discendente diretto del profeta. Farah, l'ultima imperatrice. Reza Ciro, lo scià che non ci sarebbe stato mai. Mi chiamavano la leggenda. Mio padre Ali Akbar aveva un'agenzia immobiliare a Tehran, la mia famiglia era di etnia azera, io sono nato a Tabriz, dove un giorno passò anche Marco Polo. Terra di pietre preziose e di mercanti, molto frequentata da genovesi, interamente circondata da frutteti, così la raccontò Marco Polo: di noi scrisse che eravamo selvaggi e pericolosi, che la legge del profeta ci vietava di non peccare. L'occidente altera e distorce. Sarà per invidia, l'invidia per la verità stabilita da alcuni archeologi: il Giardino dell'Eden era a Tabriz. Siamo nati dove viveva Adamo con la sua Eva. Gli azeri di Persia erano stati la guida del popolo con la dinastia Qajari. Quando i Pahlavi li deposero, il nazionalismo etnico pretese che la nostra lingua fosse messa al bando. I poeti iniziarono a tacere, e quando i poeti tacciono il buio non lo puoi fermare. La nostra letteratura doveva esprimersi in lingua farsi, il resto era affidato alla tradizione orale. Ma l'Iran adorava me, Nasser Hejazi, il suo numero uno ai Mondiali d'Argentina. Ci mancava l'esperienza. Giocammo tre partite: ne perdemmo due, con l'Olanda e con il Perù, e ne pareggiammo una, contro la Scozia.

iran  Dopo la coppa del mondo, il Manchester United mi chiamò. Una tentazione, come la mela di Adamo. Il calcio inglese, il paradiso in terra. Mi offrivano un contratto di tre mesi in prova, andai a giocarmi la mia grande occasione. Ma mentre volavo in Inghilterra, dalla Francia volava a Tehran l'ayatollah Khomeini. Feci in tempo a giocare una partita del campionato riserve contro lo Stoke City. Quando il Manchester chiese l'estensione di un mese al mio contratto, da Tehran il nuovo governo si oppose. La rivoluzione islamica mi riportò a casa. Al mio posto il Manchester prese Gary Bailey, era così scarso sui cross che lo chiamavano Dracula. Perché faceva paura. Tornavo in Iran per fare cosa, poi. Per stare fermo. Per non giocare. Gli ayatollah sospesero il campionato, stagione cancellata, le folle stavano in piazza.



Ho continuato a giocare nel mio paese. Prima in porta con lo Shahbaz, poi con l'Esteghlal, alla fine con il Mohammedan. Sono rimasto lì e nessuno all'estero s'è più ricordato delle parate con cui nel '77 avevo fatto abbracciare allo stadio 90mila persone, compreso il principino. Sono rimasto fedele. Nonostante tutto. Fedele alle regole di chi mi ha sempre bloccato. Nel 1980 il dipartimento dell'educazione fisica dispose che tutti gli atleti sopra i 27 anni fossero ritirati dalle attività internazionali. Ero il capitano della nazionale, di anni ne avevo 29, e per me la corsa finiva lì. Io che ero la leggenda. Ho vinto un campionato da allenatore dell'Esteghlal, la squadra a cui tutti i governi che si sono succeduti hanno cambiato il nome. Quando venne fondata da tre militari, si chiamava i Ciclisti. Nel '49 lo scià la cambiò in Corona, e quando al potere arrivarono gli ayatollah allora fu باشگاه فوتبال استقلال تهران, che voi scrivete Esteghlal Tehran Football Club. Esteghlal significa Indipendenza. Lì ha giocato pure il marito di mia figlia Atoosa: Saeed Ramezani. Ma il mio sogno nel frattempo era diventato un altro: cambiare qualcosa nel Paese. Non potevo farlo seduto in panchina. Ero ancora molto amato quando annunciai che mi sarei candidato alle elezioni presidenziali del 2005, per poi scoprire che non mi avrebbero ammesso. Motivo: ero troppo amato. Il consiglio dei guardiani della rivoluzione islamica rigettò la mia domanda per mancanza d'esperienza. Sono le elezioni vinte da Ahmadinejad. Nel tempo ho sostenuto Rafsanjani e Mosavi, mi sono schierato apertamente contro la politica di Ahmadinejad, mi sentivo mortificato per il destino della mia gente, un popolo povero nella terra del petrolio. Quando la tv iraniana mi mise al bando per le mie dichiarazioni, dovette fare marcia indietro, tanta era la mia popolarità. Mi dissero che non dovevo arrabbiarmi, che sarei dovuto restare tranquillo. Mi chiedevano di essere indifferente al dolore dei poveri, ma una parola in favore di Ahmadinejad non l'ho pronunciata mai.

Nasser Hejazi nel 2009 si è ammalato di cancro, nel 2011 è scomparso a 61 anni. La notizia della sua morte fu censurata dai principali media del Paese. Il  Times scrisse che il funerale si tenne in tutta fretta in un cimitero alle porte della capitale, prima ancora che la famiglia arrivasse. Attila, figlio di Nasser, condannò il regime. L'addio a Hejazi si trasformò comunque in una imponente manifestazione di protesta e di opposizione al governo: giornalisti e manifestanti vennero arrestati.

(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Nasser Hejazi sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)

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