Il vostro spogliatoio era il più vicino al settore Z. Sentiste un tonfo. E poi?
«Mancavano cinque minuti al riscaldamento, capimmo che era successo qualcosa: arrivava gente nella nostra zona. Quattro o cinque di noi s'affannarono a dare una mano. Passammo dall'interno dei secchi d'acqua, prendemmo degli asciugamani dalle docce e li lanciammo fuori. Riuscimmo a fare solo questo, ma ormai sapevamo abbastanza per non voler giocare».
L'Uefa lo impose. Com'era il clima in campo?
«Uscimmo, e nella mia area di rigore c'erano tre coltelli a terra. Li avevano lanciati dal settore alle spalle. Questo era il clima. Eravamo là ma con la testa altrove. Sia noi sia loro. Dall'inizio alla fine per me è stato un istante. Un flash. Fino al silenzio totale in hotel, dopo la partita».
Si è chiesto cosa sarebbe accaduto se avesse vinto il Liverpool?
«Eravamo andati in Belgio per alzare il trofeo, credo che lo avremmo fatto. Alla Juve è stato rimproverato di non aver restituito la Coppa. Perché avrebbe dovuto? L'errore quella sera fu giocare, la Juve fece un gol, la Coppa è sua».
Cosa è stato dopo l'Heysel per lei?
«Ho cercato la verità. Non furono autentici tifosi del Liverpool a causare la tragedia. Molti avevano trascorso la mattina con quelli della Juve, giocando a calcio per le strade, andando a bere una birra insieme. Non posso credere che l'atmosfera sia cambiata allo stadio. Io credo a un'altra cosa».
A cosa?
«C'era gente di Londra all'Heysel. Venuta apposta per fare quel che fece. Scatenarono l'assalto e andarono subito via. Perciò non li hanno mai trovati».
È la tesi dei suoi dirigenti dell'epoca. Il motivo?
«Liverpool era odiata, c'era invidia per i suoi successi nel calcio. Mia suocera era venuta alla partita, si era imbarcata con un traghetto. Anche mia madre era lì, per la prima volta si muoveva dal Sudafrica per la finale: la chiami, confermerà tutto. Mia suocera mi raccontò che all'imbarco c'erano dei tipi che distribuivano volantini su cui era scritto che sarebbe stata l'ultima partita in Europa del Liverpool. Avevano le braccia tatuate con gli stemmi di alcune squadre di Londra. Erano del National Front, l'estrema destra. Ho provato a indagare».
In che modo?
«Sono stato diverse volte a Londra, nei locali del National Front, cercando di agganciare qualcuno che sapesse qualcosa. Ho provato a prendere informazioni, avevo un amico poliziotto. Ma non sono riuscito ad arrivare alle prove. Né io né altri».
Ha mai sognato quella notte?
«Incubi ne ho avuti, tanti. Ero all'Heysel, ero a Sheffield quattro anni più tardi nel giorno della tragedia di Hillsborough: 96 tifosi morti. E fra i 17 e i 19 anni ho fatto la guerra civile in Rhodesia con l'esercito, ai confini con il Mozambico. La guerra sconvolge, ti porta negli occhi la tragedia. La vita è preziosa, sopravvivere è un regalo che arriva da qualche parte. Per questo giocavo a calcio ridendo».
Perché oggi vive in Canada?
«È il posto dove ho iniziato. Ci sono buone scuole, buoni medici, si vive bene. Alleno i portieri dell'Ottawa Fury, tre ragazzi che lavorano duro, a cui piace imparare. L'unica cosa che a un portiere non insegni è la personalità. O ce l'hai o non ce l'hai».
Lei come scoprì di averne?
«A sette anni vidi mio padre giocare. Ho sempre voluto fare il portiere, è stata la prima decisione presa in vita mia. Gli altri ragazzini volevano stare tutti in attacco, mi sono sempre parsi matti, in venti dietro la palla e solo uno poteva averla. Se non eri bravo abbastanza da stopparla, rischiavi di non toccarla mai. Meglio stare in porta. Ero più sveglio io o loro? Oggi uno sveglio è Buffon. Il migliore. Non è uno dei soliti matti. Come non lo era Zoff. Zoff mi ha ispirato più di tutti, anche se non giocavo come lui, ognuno ha il suo stile. Il mio era aggressivo. Uscivo dai pali, andavo a fermare i pericoli prima possibile. È come nella vita. Se permetti ai problemi di venirti incontro, i problemi non finiscono mai».
Bruce, è mai tornato all'Heysel?
«Ogni uomo dovrebbe tornare nei luoghi dei suoi orrori, fare i conti con i demoni, liberarsene. Sono tornato nei posti in cui ho fatto la guerra, in Mozambico, in Zimbabwe, in Sudafrica. E sono tornato all'Heysel. C'è una targa, una data, i nomi delle vittime. Non mi pare abbastanza, forse il Belgio potrebbe fare qualcosa in più per le famiglie degli italiani. Così come sarebbe splendido se Juve e Liverpool giocassero una partita ogni anno, per sempre. Per sentirsi uniti da quella tragedia. Sono passati trent'anni, all'epoca la nascita di mia figlia mi aiutò, ora ho questo bel lavoro in Canada. Gli incubi sono finiti. Adesso sono in pace».
(la Repubblica, 25 maggio 2015)
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