Guardatela questa foto che arriva dal passato. C’è un uomo giusto al centro, non so di quanti anni, forse quaranta, forse meno, stringe qualcosa fra le mani. Un gesto di protezione, dentro una scena in cui la protezione non c’è più. Porta con sé l'innocenza di un'espressione quotidiana, l'unica che resista dentro questo scatto. Si volta come si farebbe su un autobus affollato, dove ti spingono, si volta e sembra un istinto, come a chiedere attenzione, dentro una scena in cui l’attenzione non esiste più.
Qualcun altro là dietro solleva un braccio, prova a mettere al riparo qualcosa, forse una cinepresa, una macchina fotografica, in fondo non importa neppure cosa sia, importa il gesto, un gesto di cura, una minuzia, dentro una scena in cui la minuzia non c’è più, non c’è più la cura, non c’è più l’uomo. Guardate il terrore dietro gli occhiali del ragazzo sistemato proprio sotto quell’oggetto sospeso in aria. Guardate a sinistra le mani che afferrano tutto quello che è possibile afferrare per restare aggrappati, facile dire alla vita, ma in quel momento non è neppure alla vita che si pensa, quella è sopravvivenza. Guardate l’uomo sospeso poco sopra i due corpi già caduti, le braccia tese che cercano un appoggio, è bello credere che stia evitando di finire su chi era sotto di lui, evitare di schiacciarlo, di fargli del male.
Heysel è un nome che i nostri ragazzi non conoscono abbastanza. Altrimenti non potrebbero pronunciarlo invano alla domenica negli stadi, come una bestemmia. Questa foto, insieme a tante altre, era dentro un cartellina conservata al piano -1 della redazione di Repubblica. L’archivio. La parte di archivio che non è stata digitalizzata. Il posto che più di ogni altro racconta come è cambiato questo lavoro. E’ uno stanzone con il soffitto alto, scaffali, lettere, numeri. Tutto catalogato. L’orrore conservato in un posto dove tutto è ordine e silenzio.
il docufilm di Emanuela Audisio
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