sabato 5 luglio 2014

Lo scorpione di Higuita

higuita Dare gioia alla gente, alla fine questo conta. Averle strappato un sorriso con il tuo nome. Averla confortata un po' durante i suoi giorni. Se le persone si ricordano di te, ecco, allora ce l'hai fatta.
È stato un regalo del cielo aver incontrato Maturana. La sua idea del calcio era uguale alla mia. Lui diceva sempre che di pallone ce n'è uno solo, il segreto è conservarlo. Se lo tieni, non possono farti gol. Io l'ho giocato sempre con criterio, tranne quel pomeriggio maledetto a Napoli, contro il Camerun.

Ma Roger Milla è una parentesi, René Higuita è molto altro. Leonardo da Vinci fu un genio totale, eppure molti lo ricordano solo per la Gioconda. Dite Michelangelo, e tutti pensano alla Pietà. Io non mi offendo se insieme al mio nome vi verrà in mente soprattutto la parata dello scorpione. Le cose vanno così, che volete farci.



La parata dello scorpione è sempre stata dentro la mia testa. I bambini che giocano a pallone sono stati la mia fonte di ispirazione. Li guardavo provare in strada la rovesciata. La rovesciata è un gesto ribelle, è un colpo contro la natura, è prendere il mondo dal verso opposto. Ma se la rovesciata cominciano a farla tutti, allora diventa maniera, abitudine, routine. Smise di essere il mio gesto preferito, cominciai a sognarne un altro: una rovesciata al rovescio.

rene   Mi sono allenato moltissimo, di nascosto, per portarla un giorno in campo. L'ho provata per anni per conto mio, dopo uno spot pubblicitario. Finché in Inghilterra si presentò il pallone che stavo aspettando, un pallone che si avvicinava e mi diceva, Adesso René, adesso, falla. Tutto nella vita ha un significato, tutti facciamo sogni. I sogni vivono nel nostro profondo, ma pretendono di venire fuori, di diventare un libro aperto. Siamo ciò che desideriamo e io a Wembley non fui un'eccezione. Sognavo di essere il migliore, di essere un portiere, un libero, un goleador, e di essere tutte queste insieme, come davvero fui, ma poi sognavo lo scorpione, e feci pure quello. Minuto 22. C'era questo ragazzo inglese che debuttava, Jamie Redknapp. Mise un pallone al centro che voleva essere un cross, ma lo colpì male. La traiettoria era stretta. Anziché filare profonda verso l'area, mi puntò. Viaggiava dritta verso di me. Verso la porta. Vidi con la coda dell'occhio il guardalinee che alzava la bandierina per segnalare un fuorigioco. Era arrivato il momento. Allora mi sono tuffato in avanti, il busto parallelo al prato, le gambe piegate all'interno, le suole delle scarpe dritte. L'ho presa così. Una parata che dovette piacere pure al guardalinee, infatti abbassò subito la bandierina, mentre la folla gridava e i miei compagni mi guardavano come se avessi perso all'improvviso i riccioli, i baffi e la barba. Con quella parata ho scolpito un gesto per sempre, ma diciamo la verità, ho reso celebre soprattutto Redknapp.



Ho rifatto lo scorpione contro la Germania, alla partita d'addio di Chilavert, di Maradona, di Serna, di Aristizábal. Mi invitavano per quello, facci lo scorpione, René, e io andavo, andavo e lo facevo. Ma non mi sono mai sentito Buffalo Bill, come Leonardo non si è mai sentito solo il pittore della Gioconda. Ci saranno giorni in cui sarò dimenticato, meglio prendersi adesso tutta la gioia. Sono nato a Castilla, il quartiere di Medellín in cui vive il ceto medio basso. Non ho mai conosciuto mio padre, Higuita è il cognome di mamma, María Doselina, morta troppo presto. Sono cresciuto con mia nonna, Ana Felisa, andavo a vendere i giornali per darle una mano in casa e avere i soldi per fare la spesa. A calcio giocavo per fare gol, è quello il senso del gioco. Un giorno quelli dell'Independiente Medellìn vennero a cercare dei giocatori, giusto la volta in cui il nostro portiere si era fatto male e mi avevano chiesto di andare fra i pali. Mi presero. Ricordo ancora la voce dell'uomo che chiamò i prescelti. Renè Higuita, portiere. Ma portiere era poco, dentro di me lo sapevo. Una cosa non ho mai capito. Come si piazza la barriera. Se il portiere sono io, non capisco a cosa serva quel muro davanti sui calci di punizione. Ma niente, il mondo del calcio è così, le cose non vuole cambiarle mai. La barriera si deve mettere, mi dicevano tutti, finanche Maturana, e io Maturana lo ascoltavo. Ho perso il conto delle partite perse per colpa di un gol su calcio di punizione. Pure quella volta a Tokyo, finale di Coppa intercontinentale contro il Milan, minuto 119, gol di Chicco Evani: quando tutto il Milan ormai tremava all'idea di farsi parare da me i calci di rigore.

rene-higuita-1   Gli scandali cominciarono due anni dopo. Fuori dal carcere della Catedral trovai un giornalista. Ero stato a fare visita a Pablo. Un mio amico, questo era. Un amico in prigione. Ma per il mondo era Pablo Escobar Gaviria, il capo del cartello di Medellìn. Il narcotrafficante più famoso al mondo. Ho conosciuto capi militari e guerriglieri, ho conosciuto anche Escobar, e ho guardato nel suo cuore, con tutte le sue difficoltà, i guai, ho visto la parte umana che c'era in lui. Il giornalista domandò e io risposi. Gli dissi la verità. Sono amico di Escobar. Certo. Lo sono. Tutto il mondo gli stava voltando le spalle, pareva che io fossi l'unico a conoscerlo. Non trovavi più un politico, in quei giorni, disposto ad ammettere di avergli stretto la mano. Ho pagato io, ma sono fiero di essere rimasto un amico leale, senza avere mai avuto a che fare con il narcotraffico. Forse voi avrete amici profumati e ben vestiti, gente che legge i libri giusti e assaggia vini pregiati, ma non siete migliori di me. Ho avuto amici di tutte le classi sociali, per me è stata una ricchezza: oggi, domani e sempre dirò che mai, mai e poi mai rinnegherò un amico, sia chi sia, un angelo o un uomo corrotto. Il 4 giugno del '93 mi arrestarono con l'accusa di essere coinvolto in un caso di sequestro. Avevo mediato per la liberazione della figlia di Luis Carlos Molina Yepes: era stata rapita perché suo padre aveva fatto uno sgarbo al cartello. Il riscatto richiesto era di 3 milioni di dollari, dove li prendeva Carlos 3 milioni di dollari. Ma il mio intervento era vietato dalla legge colombiana. Mi tennero sei mesi nel carcere Nacional Modelo de Bogotá, fu l'occasione per farmi fuori dal mondiale americano. Maturana dovette portare Còrdoba, Mondragòn e Pazo. Se ci fossi stato io, forse non avremmo preso tre gol dalla Romania e due dagli Stati Uniti. Subito fuori, addio Colombia. Ho perso i Mondiali, mi è rimasto il calcio. Giocare fino a 44 anni, scendendo anche in serie B, è stata la mia risposta. Certe volte, su certi campi, era come passare dal cielo all'inferno. Volevo sentirmi uno che stava ricominciando daccapo, soprattutto dopo la storia della cocaina. Alcuni giorni era deprimente, altri una benedizione. Sui campi con poca erba della serie B ho scoperto che il passato non finisce mai. Ero sempre Higuita, ovunque andassi. Venivano per vedere me. Ma non ho mai smesso di essere neppure quello della visita a Escobar. Quando un giornalista mi fece l'ennesima domanda su quella vecchia storia, ormai quasi vent'anni dopo, all'aeroporto gli diedi un pugno in un faccia. Forse avrei dovuto proteggermi meglio, ma lo sapete, io la barriera non la so piazzare.

(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a René Higuita sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)


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