martedì 8 luglio 2014

Tony Meola e quella faccia da Hollywood

meola3 Il primo elogio me lo fece Dino Zoff, che allora allenava i portieri della Juve. Non mi conosceva nessuno. Erano i giorni in cui sognavo di giocare la Coppa del mondo: se da bambino mi avessero chiesto in quale Paese, avrei detto Italia e Usa. E andò così.
Vincenzo, mio padre, era arrivato in New Jersey nel '65. Io sono nato quattro anni dopo. Raccontava di aver giocato con l'Avellino in serie B. Forse qualche partita, di sicuro era la serie C. Era partito da Torella dei Lombardi, il posto in cui era nato anche il papà del regista Sergio Leone, negli anni Sessanta stavano andando via in molti: più o meno il 10 per cento della popolazione.


Mia madre, Maria, era di Castel Franci, una ventina minuti in macchina in direzione del parco regionale del Partenio. Ho giocato a calcio per lui. Mio padre. Che per la verità nel New Jersey era più conosciuto come barbiere. E poi perché a Kearny, dove sono cresciuto, il soccer aveva un certo peso. C'erano tre squadre, una creata proprio da italiani. A Kearny s'era pure giocata quella che viene considerata la prima vera partita della nazionale statunitense: 3-2 al Canada. Era il 1886. Kearny era così vicina a New York da esserne stata ingoiata, pur conservando una sua autonomia amministrativa. Era piena di immigrati scozzesi, forse persino più di noi italiani. John Harkes, un altro dei ragazzi della squadra in Coppa del mondo, aveva i genitori di Aberdeen. E comunque, va bene il calcio, ma a scuola ero pure il capitano della squadra di basket, uno dei membri della squadra di atletica e una delle grandi promesse del baseball.

meola  Come potessi allenarmi sempre, in tutti gli sport, ancora me lo chiedo. Avevo una copia delle chiavi della palestra, la sera alla fine della giornata me ne andavo da solo nella batting cage, la gabbia in cui si allenano i battitori del baseball, e restavo a ripetere i miei gesti fino a tardi. Sempre così, non volevo che fosse diverso, non desideravo altro. E' stato lo sport a portarmi all'Università. I miei non avrebbero avuto la possibilità di pagarmi una retta, o forse un modo lo avrebbero anche trovato, ma si sarebbero dovuti indebitare la vita intera, e mi sa che io non avrei voluto. La University of Virginia invece era perfetta: ottimi studi e mi dava la possibilità di proseguire i miei allenamenti al solito modo. Finché non incontrai Bruce Arena. Il più grande allenatore di calcio dell'epoca a livello universitario. Uno che ti dice sempre in faccia quello che pensa. Allora scelsi. Il calcio. Portiere. Era italiano anche suo nonno, un siciliano che aveva aperto un negozio di alimentari a Brooklyn, all'interno ci trovavi le fotografie di Bettega e Paolo Rossi. Quando ci qualificammo per Italia '90, vincendo l'ultima partita a Port of Spain contro Trinidad e Tobago, all'inizio non capimmo neppure la grandezza dell'impresa. Gli Usa mancavano da una Coppa del mondo dal 1950. La Fifa aveva fatto balenare l'ipotesi che in caso di mancata qualificazione, l'assegnazione del Mondiale '94 al Paese si sarebbe potuto anche rivedere. Nel giro di pochi mesi ero passato dal campus di un college alla qualificazione per Coppa del mondo, da giocare nel Paese dei miei genitori. Surreale. Quell'apparizione in Italia mi rese famoso. Mi domandavano di Torella, dell'Irpinia, di mio padre, giravo l'Italia e ogni tanto spuntava un lontano parente a chiedermi una maglia, un paio di guanti, un sorriso. Rimasi in Europa per fare in modo che il calcio diventasse il mio lavoro. Firmai per il Brighton, dopo 11 partite mi cedettero al Watford. Era in seconda divisione, d'accordo, ma pur sempre la squadra di Elton John. Il punto era la burocrazia. Non era semplice in quegli anni per un americano avere un visto in Inghilterra per motivi di lavoro. Furono i mesi più frustranti della mia vita. Arrivavo a casa dopo l'allenamento e dovevo andare in consolato a discutere, ore e ore, a chiedere a qualcuno a che punto fosse la mia pratica. Andai vicinissimo a firmare per il Tolosa, in Francia, poi non se ne fece niente. Insomma tornai in America. Volevo solo giocare a calcio, la via più breve me la offrì la federazione, portando tutti i ragazzi di interesse nazionale in ritiro a Missione Viejo, in vista della Coppa del mondo che avremmo giocato in casa.

meola2  Just keep the ball rolling. Questo era il nostro motto dell'epoca. Si stava bene alle spalle di tutti, in porta, è da lì mi accorsi che si trascina meglio una squadra. Più urlavo in partita, più me ne stavo in silenzio e in disparte durante la settimana. Per serietà, non per nervosismo. Mi diedero del traditore, subito dopo i Mondiali, perché i New York Jets mi offrivano un posto in squadra. Parlo di football americano. Dissero che stavo facendo morire il sogno del soccer americano, che ero un irrequieto, che la fama del calcio non mi bastava, che volevo far soldi, che volevo sfondare a Hollywood con la mia faccia da Steven Seagal. Non bastò che garantissi la mia disponibilità a vestire ancora la maglia della nazionale. Bill Sage, presidente della Lega, disse: "Ne faremo a meno, non ci mancano i giocatori". Rimasi nel giro, invece. Rimasi in America. I Buffalo Blizzard, i Rough Riders, i New York Metro Stars. Ma la nazionale mi aveva escluso. Finché non diventò ct Bruce, il mio Bruce. In amichevole con la Giamaica mi fece entrare in modo che io raggiungessi la centesima presenza. Nel 2002 mi portò come terzo portiere al mondiale in Asia. Un giorno sospese le libere uscite per lo shopping e per il golf. Disse che era nostro dovere andare a fare visita alle truppe americane di stanza al confine tra la Corea del Sud e la Corea del Nord. L'anno prima aveva perso il suo migliore amico, Eamon, nell'attentato al World Trade Center. Ecco chi era Bruce. Perciò a me bastano la sua amicizia e la sua stima. Quanto al resto, il resto non conta.

(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Tony Meola sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)

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