Non conta solo il numero 10, non conta solo il numero 1. A calcio si gioca in undici e se quegli undici non funzionano tutti insieme, be', non si va da nessuna parte. Neppure se avete parato un rigore a Maradona, neppure se gliene avete parati due, com'è capitato a me, senza riuscire a batterlo mai. Quando arrivammo in Italia per giocare i Mondiali del '90, il nome Jugoslavia conteneva ansia e paura. La Slovenia aveva proclamato l'indipendenza economica a marzo, e a Zagabria, la mia città, Tuđman pronunciava parole simili. L'ultima amichevole prima della partenza era finita con il pubblico a tifare per l'Olanda: nell'unità garantita da Tito, la mia gente non si riconosceva più. Eppure, dovevamo essere una squadra, un gruppo solo. Si decise che fra di noi non avremmo mai parlato di politica.
Ci pensavano gli ultrà a ricordarci che anche il calcio era dentro la storia. La partita fra Stella Rossa e Dinamo Zagabria si era trasformata in una guerriglia urbana, con cento feriti. Gli slogan e gli striscioni in curva erano quasi tutti di natura politica, e i cinquemila tifosi che attraversarono la frontiera a Trieste a bordo di 100 pullman non la pensavano diversamente. Eravamo la Jugoslavia al Mondiale, ma negli stadi italiani sventolavano separate la bandiera serba e quella croata. Ivica Osim, il nostro ct, era preoccupatissimo di preservare la pace in squadra fra i due gruppi, nonostante la situazione politica fosse tesa nel Paese. Dopo aver perso 4-1 con la Germania all'esordio, saremmo potuti esplodere in mille pezzi. Accanto al nostro hotel, in Emilia, c'era una piccola cappella. Safet Susic, bosniaco, non aveva proprio nulla a che vedere con la religione. Eppure decise di venire lì dentro, a pregare, con me croato e con Dragan Stojkovic, serbo. Anche se pregare non è il verbo giusto, entrammo in chiesa per sentirci uniti.
Battemmo Colombia ed Emirati Arabi nel girone, poi la Spagna negli ottavi, e ci trovammo di fronte i campioni del mondo dell'Argentina nei quarti. Firenze fu la sola città italiana, a parte Napoli, a non fischiare l'inno argentino. Ma quando l'arbitro ci lasciò in dieci per l'espulsione di Sabanadzovic, la folla cominciò a gridare: Camerun, Camerun. Per ricordare agli argentini la loro sconfitta all'esordio. Resistemmo un'ora e mezza. Calci di rigore. Osim mi disse: "Adesso tocca a te". Agli argentini era stato annullato un gol di Burruchaga al 118', l'aveva presa di petto, ma era tanta la paura di un'altra mano de dios che l'arbitro cancellò quel gol.
Sbagliò per primo Stojkovic, era andato sul dischetto palleggiando, fingendo una strafottenza che non gli apparteneva. Sul 2-1 per noi, l'Argentina andava al terzo tiro. Con Maradona.
Era la seconda volta in nove mesi che me lo trovavo di fronte. Al primo turno di Coppa Uefa, stadio San Paolo, con il mio Sporting Lisbona c'eravamo giocati la qualificazione sempre ai rigori. Era venuto davanti a me col pallone tra le mani, e allora io lo avevo provocato. Gli dissi, Scommetti che te lo paro? Cento dollari, ci stai? Lui era concentrato, mormorò un sì, va bene e piazzò la palla.
Gli parai il tiro e andai a prenderlo per un braccio, ehi Diego ti ricordi, cento dollari, eh. Pagò la scommessa negli spogliatoi, felice comunque, perché il Napoli aveva passato il turno. La squadra, ragazzi, ve l'ho detto, conta quella. La squadra.
Me lo ritrovai di fronte a Firenze, Argentina-Jugoslavia. Da lontano gli feci segno che avrei voluto scommettere ancora, disse di no stavolta, presi quel no come un complimento che mi faceva. Parai di nuovo, lui tornò verso il centro del campo disperandosi. Aveva cambiato l'angolo del tiro, sicuramente ricordandosi del precedente del San Paolo. Proprio al San Paolo si sarebbe giocato il turno successivo: la semifinale. Volevo tornarci. Volevo sfidare l'Italia. Maradona tirò malissimo, respinsi, eppure vinse ancora lui. L'Argentina viaggiò verso Napoli, noi tornammo a casa. Ci aspettava la guerra. La fine della Jugoslavia.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Tomislav Ivkovic sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
Alla partita del 30 giugno 1990, prologo della dissoluzione della Jugoslavia, lo scrittore Gigi Riva ha dedicato il libro "L'ultimo rigore di Faruk", Sellerio, 2016)
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