Oliver Baumann è un ragazzo di 23 anni che migliore di tutti potrebbe diventare. Così dicono in Germania. Almeno fino a ieri. Lo aspettano come si aspetta il futuro. Gioca nel Friburgo, una squadra di bassa classifica che però l'anno scorso si è piazzata al quinto posto e sta giocando l'Europa League. Baumann ne è anche capitano, altro segno che la personalità c'è.
Per il povero Oliver - nome da orfanello maltrattato ma sempre sereno, non vi sfuggirà - l'appuntamento con le papere della vita è arrivato ieri, tre tutte insieme, contro l'Amburgo. Chi lo sa che cosa gli è preso. Prima ha mal giudicato un pallone lungo, di quelli che partono lenti lenti dalla metà campo, lui gli è andato incontro con la serenità di un bimbo che gioca nei prati. Poteva respingere la palla di testa poco fuori dall'area o aspettarla all'interno e prenderla con le mani. Nel dubbio non l'ha presa per niente. Si è lasciato scavalcare, Beister - l'avversario - neppure poteva crederci, l'ha spinto nella porta vuota e buona notte. Baumann allora ha dato un calcio al palo, mancavano 8 minuti alla fine del primo tempo.
Immaginatevi l'intervallo. L'allenatore Christian Streich prende Oliver da una parte e gli dice Ok, ok, dimentica quest'episodio, torniamo in campo e ricominciamo a giocare. Bene. E adesso immaginatevi che due minuti dopo l'inizio del secondo tempo, Oliver ne combina un'altra. Più o meno uguale. Lancio lungo, difesa spiazzata (sì, certo, poi bisognerebbe parlare della difesa), lui che esce fuori dall'area e lì in un attimo funesto si scopre uomo di pensiero. Anziché agire, si consuma nella riflessione: che faccio, la prendo o no? Nel dubbio, sceglie la via di mezzo, d'altra parte ci sono secoli di filosofia che ne esaltano la virtù. La via di mezzo per Baumann consiste nel fare un passettino indietro, rientrare in area, prendere il pallone e subito dopo lasciarlo lì. Gli sfugge. Lasogga - l'avversario - stavolta ci crede con meno fatica, spinge la palla nella porta vuota e sono due.
Sullo stesso errore ripetuto in una stessa partita, Evaristo Beccalossi ha costruito la propria auto-ironica leggenda. Baumann esagera. Non si ferma a due. L'ultima papera, a questo punto, sembra persino un gesto normale. Tiro da fuori, lui va per bloccarla, la palla gli sbatte addosso, fra braccia torace e mento. Un po' dovunque, e ovviamente rimbalza lì, dove si trova l'avversario, van der Vaart: zero a tre. Pare di cogliere dalle immagini in van der Vaart un sorriso maligno. In realtà van der Vaart festeggia come tanti, facendo il cuoricino con le dita. Forse è per Baumann. Il quale, finita la partita, tira fuori la frase da fenomeno: "Meglio fare tre cose del genere in un giorno solo che farne una in tre volte differenti. La mia fiducia non è intaccata. Certo, la situazione non è delle migliori, ma bisogna restare calmi, senza diventare matti".
Una rivendicazione di normalità da parte di chi gioca nel ruolo più anomalo. Dove l'errore è fatale, dove fa letteratura. Lui, niente. Impassibile. Senza poesia, senza melodramma. Commenta da ragioniere: "Meglio tre in un giorno solo" e via di seguito. Ora. Senza buttarsi sulla consueta solitudine dei numeri uno e sulla poesia di Umberto Saba ("Il portiere caduto alla difesa" eccetera eccetera), ecco, diglielo al tuo allenatore, Oliver, che non è il caso di diventare matti. A lui che adesso avverte: "Mi sa che dovremo parlarne". Mi sa di sì.
Per il povero Oliver - nome da orfanello maltrattato ma sempre sereno, non vi sfuggirà - l'appuntamento con le papere della vita è arrivato ieri, tre tutte insieme, contro l'Amburgo. Chi lo sa che cosa gli è preso. Prima ha mal giudicato un pallone lungo, di quelli che partono lenti lenti dalla metà campo, lui gli è andato incontro con la serenità di un bimbo che gioca nei prati. Poteva respingere la palla di testa poco fuori dall'area o aspettarla all'interno e prenderla con le mani. Nel dubbio non l'ha presa per niente. Si è lasciato scavalcare, Beister - l'avversario - neppure poteva crederci, l'ha spinto nella porta vuota e buona notte. Baumann allora ha dato un calcio al palo, mancavano 8 minuti alla fine del primo tempo.
Immaginatevi l'intervallo. L'allenatore Christian Streich prende Oliver da una parte e gli dice Ok, ok, dimentica quest'episodio, torniamo in campo e ricominciamo a giocare. Bene. E adesso immaginatevi che due minuti dopo l'inizio del secondo tempo, Oliver ne combina un'altra. Più o meno uguale. Lancio lungo, difesa spiazzata (sì, certo, poi bisognerebbe parlare della difesa), lui che esce fuori dall'area e lì in un attimo funesto si scopre uomo di pensiero. Anziché agire, si consuma nella riflessione: che faccio, la prendo o no? Nel dubbio, sceglie la via di mezzo, d'altra parte ci sono secoli di filosofia che ne esaltano la virtù. La via di mezzo per Baumann consiste nel fare un passettino indietro, rientrare in area, prendere il pallone e subito dopo lasciarlo lì. Gli sfugge. Lasogga - l'avversario - stavolta ci crede con meno fatica, spinge la palla nella porta vuota e sono due.
Sullo stesso errore ripetuto in una stessa partita, Evaristo Beccalossi ha costruito la propria auto-ironica leggenda. Baumann esagera. Non si ferma a due. L'ultima papera, a questo punto, sembra persino un gesto normale. Tiro da fuori, lui va per bloccarla, la palla gli sbatte addosso, fra braccia torace e mento. Un po' dovunque, e ovviamente rimbalza lì, dove si trova l'avversario, van der Vaart: zero a tre. Pare di cogliere dalle immagini in van der Vaart un sorriso maligno. In realtà van der Vaart festeggia come tanti, facendo il cuoricino con le dita. Forse è per Baumann. Il quale, finita la partita, tira fuori la frase da fenomeno: "Meglio fare tre cose del genere in un giorno solo che farne una in tre volte differenti. La mia fiducia non è intaccata. Certo, la situazione non è delle migliori, ma bisogna restare calmi, senza diventare matti".
Una rivendicazione di normalità da parte di chi gioca nel ruolo più anomalo. Dove l'errore è fatale, dove fa letteratura. Lui, niente. Impassibile. Senza poesia, senza melodramma. Commenta da ragioniere: "Meglio tre in un giorno solo" e via di seguito. Ora. Senza buttarsi sulla consueta solitudine dei numeri uno e sulla poesia di Umberto Saba ("Il portiere caduto alla difesa" eccetera eccetera), ecco, diglielo al tuo allenatore, Oliver, che non è il caso di diventare matti. A lui che adesso avverte: "Mi sa che dovremo parlarne". Mi sa di sì.
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