James Thaine, il pilota, mi gridò: Scappa, stupido bastardo che adesso scoppia. Non lo so. Non so dove trovai il coraggio. So che invece tornai indietro. Dentro il relitto in fiamme. Presi una bambina e la tirai fuori di lì. Tirai fuori una donna. Poi Bobby Charlton e Dennis Viollett. Li gettai fuori da quel che restava dell'aereo. Ci salvammo in ventuno e per tutti io diventai Harry Gregg, l'eroe di Monaco. Trascinai Charlton e Viollett per una ventina di yards in mezzo alla neve. Matt Busby, il nostro manager, si grattava il petto e si lamentava: Le gambe, le mie gambe. Le sue ferite facevano spavento. Roger Byrne invece non ne aveva neppure una, ma non si muoveva, i suoi occhi erano aperti, passandogli accanto era chiaro, era fin troppo chiaro, che fosse morto. Giocava in difesa. Ho ancora un rimpianto quando penso a quel giorno. Penso che gli occhi, a Roger, dovevo chiuderglieli. Passarci una mano sopra e chiuderglieli.
E Jackie Blanchflower, poco più in là, aveva la parte inferiore del braccio destro quasi completamente irrigidita. Una cosa orrenda.
Io sono stato fortunato. Ma non sono vivo. Sono un sopravvissuto. Non è uguale. Un sopravvissuto sente il dolore. Io sento la rabbia. Sento il senso di colpa. Sento la frustrazione. Anche se mi chiamano l'eroe di Monaco, perché dall'aereo che cadde con il Manchester United a bordo tirai fuori un po' di persone. Per quarant'anni non ho potuto guardare in faccia la vedova di Geoffrey Bent, quella di Roger Byrne, la famiglia di David Pegg e gli altri, tutti quanti gli altri. Non potevo guardarli negli occhi sapendo che io ero salvo e i loro mariti, i loro figli, i loro fratelli no. I miei demoni sono rimasti dentro di me per quarant'anni, fino al giorno in cui si tenne una cerimonia di commemorazione nella cattedrale di Manchester. La sera dopo, alla fine di un Manchester-Bolton, si avvicinò Joy, la moglie di Roger, e mi disse di smetterla: "Perché ti torturi ancora?". Si erano sposati da sei mesi, lei aveva saputo di essere incinta qualche giorno dopo la tragedia. Roger junior sarebbe nato il 7 ottobre, l'aereo era caduto il 6 febbraio. In Inghilterra, la vita per una vedova non era semplice negli anni Cinquanta e Sessanta. Joy ha cresciuto da sola Roger jr lavorando come fisioterapista. Matt Busby cominciò a portarsi il piccolo a Old Trafford come raccattapalle. Avreste dovuto vederlo, si muoveva come suo padre. Ecco, quella sera, solo quella sera, solo con quelle parole di Joy, sono riuscito a lavare la mia colpa. La colpa di essere ancora qui. Vivo, per modo di dire.
Il disastro di Monaco è una ferita aperta nel Manchester United, la cosa che mi rattrista e mi fa rabbia è vederlo diventare un'industria, di cui certa gente s'approfitta. Un'industria di mezze verità, bugie, esagerazioni. C'è un giocatore di quel Manchester che l'ha scritto nel suo curriculum: va raccontando alla gente che grazie a un infortunio non era su quell'aereo. Non è vero. Era una riserva. Aveva giocato con noi solo una volta. Di essere convocato per quella partita di Coppa dei Campioni contro la Stella Rossa di Belgrado se lo poteva scordare, Busby lo aveva escluso, tutto qui, altro che infortunio. Ma grazie a questa frottola, ha campato nel circuito del chiacchiericcio da bar, e questa cosa mi disgusta. Frank Taylor, l'unico giornalista sopravvissuto al disastro, scrisse un libro: Munich, il giorno che una squadra morì. Conteneva un mucchio di licenze poetiche, chiamiamole così. Raccontò di quanto fossero state solerti le istituzioni tedesche, e di un via vai di ambulanze e pompieri intorno al nostro aereo caduto. Se fu così, perché allora ci portarono in ospedale nel bagagliaio di una Volkswagen? Bill Foulkes raccontò di avermi visto intorno alla coda dell'aereo con un bambino in braccio. La verità è che Bill tornò indietro ad aiutare, ma quando io stavo portando fuori il bambino, lui stava scappando dall'aereo.
Morirono 23 persone. Otto erano miei compagni di squadra. I Busby Babes. I ragazzi di Busby. Il Manchester era la nostra gioia. Tredici giorni dopo ero di nuovo in campo contro lo Sheffield Wednesday per la Fa Cup. E Foulkes insieme a me. Giocare subito mi ha forse salvato dalla pazzia. Avevo sempre mal di testa. Mi decisi a farmi visitare da un neurochirurgo, scoprì che avevo una frattura al cranio. Quattro mesi dopo ero ai mondiali in Svezia, io portiere e capitano dell'Irlanda del Nord. Fummo una sorpresa. Battemmo la Cecoslovacchia, perdemmo con l'Argentina e pareggiammo 2-2 con la Germania campione del mondo. Ci giocammo la qualificazione nello spareggio con la Cecoslovacchia e vincemmo ancora: 2-1. Ma pagammo la stanchezza due giorni dopo, 4 gol presi dalla Francia di Fontaine. Addio Mondiale.
Quando a 17 anni in prima squadra arrivò George Best, la prima cosa che fece fu pulirmi le scarpette. Disse che toccava a lui, che lo considerava un onore. Un conto è il coraggio, mi disse, un altro quello che hai fatto tu. Harry, tu hai fatto una cosa divina. Eppure, Monaco non è stato il momento peggiore della mia vita. Fu assai peggio perdere la mia Mavis per un cancro al seno. Aveva fatto una mastectomia, pensai che ce l'avrebbe fatta. Sono andato in mille pezzi. Non ci credo più nel padreterno. Sono arrivato a vivere come un animale. A Monaco ho visto la morte sulla scaletta di un aereo, ma è un'altra cosa quando te la ritrovi dentro casa. La cosa che più spesso si dice di me è che sono un uomo forte. Non è vero. Non sono mai stato forte in vita mia. Un vigliacco, questo sono. Quando il dottore mi disse che Mavis aveva il cancro, sono fuggito dall'ospedale. Non sono riuscito a guardarla in faccia. Solo quando mi sono voltato e l'ho vista sorridere alla finestra, sono tornato indietro. Era lei che confortava me.
Qualche anno fa ho reincontrato la donna che portai fuori dall'aereo - era la moglie di un diplomatico jugoslavo - Vera Lukic, e quella che allora era la sua bambina, Vesna. All'appuntamento, con loro due, è venuto pure un uomo. Piacere, Zoran, mi ha detto. Chi sei, gli ho domandato. Sono il bambino che quel giorno era nella pancia di Vera. Mi sono voltato per non farmi vedere piangere, come un vigliacco, ma forse non sono l'unico a cui non piace mostrare la sua vera faccia al mondo. Ammettetelo. La vita è una recita.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Harry Gregg sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
Nessun commento:
Posta un commento