Non ce l’ho fatta ad andare allo stadio. I Mondiali nella mia Argentina, e io a casa. Non ce l'ho fatta a unire la mia voce a quella della folla, la folla cieca che ha scelto di non vedere. Potevo esserci io in porta, Hugo Gatti, il loco. Hanno organizzato tutto per bene. Hanno sistemato ogni cosa affinché vada come deve andare. Piano perfetto, il loro. Loro chi? Andiamo, avete capito. Ma ho detto di no. Due lettere. Le più difficili da mettere insieme. Vi avranno parlato di Ubaldo Fillol, detto il Papero. Lui è quello che mi ha preso il posto. Fa il signore. Perché lui è il tipo giusto. Il fidanzato che ogni madre sogna per sua figlia, solo che le figlie sognano me.
Lui è l’affidabilità. Lui è la tradizione. Lui non si allontana dalla porta. Aspetta che gli passi la vita davanti e sa che se la caverà. Io esco dai pali, mi tuffo, mi lancio. Lui una partita la gioca, io una partita la vivo. Io non mi sento un portiere, io sono un attaccante che gioca in porta. Molti dei gol che ho preso, lui li avrebbe evitati. Ma molti dei tiri che ho parato, per lui li sarebbero stati imprendibili. Non si sarebbe buttato. Immaginate la vita di uno che non si butta mai. Hacer vista, dico io. Se guardo la palla intensamente, la palla si ferma. Pare una cosa da sciamani, magari pensate che io lo sia, con questi capelli lunghi, i maglioni colorati, le mie parole sfrontate. Ho parato 26 rigori. Chiamatemi pure sciamano, io penso di essere un campione. Semplice. Un campione. Prima che alla Casa Rosada arrivassero con il golpe Videla e i suoi generali, in nazionale c’ero io. Il papero era la mia riserva. Di politica non si parlava mai. Il 24 marzo del ’76 eravamo in Polonia, tredicimila chilometri da Buenos Aires. Una turnée. Poco prima di andare in campo, in Polonia vennero in albergo a dirci quello che stava succedendo in Argentina. Kempes e Scotta erano i più preoccupati. Eravamo partiti da un Paese democratico, saremmo rientrati sotto una dittatura.
Qualcuno mormorò che non dovevamo scendere in campo, Videla invece s’era raccomandato. Voleva che vincessimo in casa della squadra terza piazzata al Mondiale del ’74. La giunta annunciò la sospensione delle trasmissioni tv in tutta l’Argentina per quel giorno. Con una eccezione. La partita. Canal 7 la avrebbe trasmessa al posto dei notiziari. Ci toglievano la libertà e ci davano una partita di calcio.
Gallego la prese male. Iniziò a pensare alla sua famiglia, a cosa potesse capitare. Lo tranquillizzarono. Mancavano tre ore alla partita. Kempes più di tutti parlava della possibilità di non andare in campo. Ma allo stadio c’era già tanta gente, dissero che ormai era tardi, non potevamo tirarci indietro. Cesar Menotti, l'allenatore, ci riunì e ci chiese di restare calmi. Vincemmo 2 a 1. E chi se ne fregava. Quando la partita finì, scappammo dai giornalisti a chiedere novità. Giocammo ancora in Ungheria, poi a Berlino, poi a Siviglia. Restammo in Europa altri venti giorni, i giornalisti sapevano sempre meno, dicevano che non c’era nulla da temere, che in Argentina stavano tutti bene. E dicevano che giocavamo un grande calcio, che saremmo diventati campioni del mondo. Menotti mi faceva ridere: sosteneva che i giornalisti non sanno niente, niente di calcio e niente di niente, che se li chiudi dentro una stanza non sanno nemmeno scrivere una lettera alla mamma.
Un decreto di Videla vietava di parlar male della Selecciòn. Non si poteva criticare la nazionale, figurarsi se si poteva raccontare che in Argentina arrestavano 200 persone al giorno. Il mio amico Jorge Carrascosa decise di lasciare la squadra. Chi voleva capire, capì. E io? Io dissi a Menotti che al Mundial del '78 non sarei andato perché avevo un tremendo male al ginocchio. Uno stranissimo caso. Veniva ogni volta che la nazionale chiamava. Ma se giocava il Boca, la mia squadra, il dolore passava e io andavo in campo. Coincidenze. Non ho mai preso posizione apertamente, mai detto che lo facevo di proposito, ho sempre raccontato che la politica non mi interessava. Con Menotti non c'era bisogno di troppe parole. Solo Fillol non ha capito niente. Va in giro a raccontare che ho inventato una scusa per non fargli da riserva, per la paura della panchina. Un poveraccio. Gli voglio bene. Ma è un poveraccio, non sa niente e parla.
A vent’anni ero stato il terzo portiere della nazionale ai Mondiali del ’66. Se non avessi avuto il famoso dolore al ginocchio, il titolare sarei stato ancora io, e Fillol oggi non lo conoscerebbe nessuno. E invece parla. Io non ho paura: del Papero e di nessuno. Io sono quello a cui una volta i tifosi avversari, dalla curva dietro la mia porta, tirarono addosso una scopa. La raccolsi e mi misi a spazzare l’area di rigore, c'è sempre qualche coriandolo. Io mettevo la bandana, i calzettoni abbassati, sai cosa me ne fregava di una scopa. Come Kempes. Kempes se ne fotteva di Videla. Non gli ha mai voluto stringere la mano. Andava in campo e pensava a segnare. Diceva che Videla poteva far sparire tutti gli studenti argentini che voleva, non avrebbe mai avuto il coraggio di far sparire l’attaccante della nazionale. E Menotti? Leggeva la filosofia, suonava il piano. Sapevo che era un radicale, che non aveva le stesse idee dei generali. Subito dopo il golpe disse in pubblico: “Così l’Argentina torna cento anni indietro”. Un hombre vertical. Eppure nessuno dei miei compagni sentì che stava vendendo l’anima, neppure quando i generali arrivavano in ritiro e chiedevano una foto. Il calcio è solo calcio, la folla vuole così.
I tifosi del Boca mi accolsero benissimo anche se venivo dal River Plate. Mi hanno visto come uno di loro. La notte stavo con i tangueros, coi sudacas, con le puttane di porto Madero. Io sono il portiere che contro l'Independiente si è stufato di stare a guardare la partita, non succedeva niente, mi sono sfilato le scarpe e me ne sono andato sedere sopra la traversa. Io sono il portiere che contro l'Argentinos Juniors, prima di entrare in campo, è andato da un ragazzetto alto un metro e mezzo, uno e 68 al massimo, con tanti riccioli in testa, lo trattavano come un mezzo padreterno perché aveva già segnato 79 gol . Gli ho detto Ehi gordito, chiattoncello, guarda che non mi segni neppure se Gesùcristo scende un'altra volta sulla terra. Quello prima mi fa l'ottantesimo gol su calcio di rigore, poi l'ottantunesimo e l'ottantaduesimo su punizione, l'ottantatreesimo in contropiede chiamandomi fuori dai pali. Me ne ha segnati quattro. Maledetto dovunque tu sia, Diego Maradona. A quei Mondiali del '78 Menotti non ti portò. Siamo stati "non-campioni del mondo" insieme, noi non abbiamo preso la Coppa da Videla. Che cosa ne sa Fillol, che cosa ne può sapere.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Hugo Gatti sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
2 commenti:
todo verda, aunque si creo hhonestamente que el pato te robaba el puesto lo mismo , pero a mi no me importa sos el mas grande de la historia de BOCA,YO SOY PRIMERO HINCHA DE boca despues Argentino y esto me basta
Bien venido, amigo
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