Un montòn de plata. Un montone di soldi. Ecco cosa offriva il Paris Saint Germain per portarmi in Francia. Volevano il portiere più giovane del mondiale di Spagna '82. Volevano il portiere che aveva preso solo un gol nelle partite di qualificazione. Se sei nato a El Salvador, una cosa del genere non ti capita facilmente. A me, Luis Ricardo Guevara Mora, successe.
Le qualificazioni erano iniziate che non avevo ancora diciott'anni. Mi dissero che mi aveva chiesto pure l'Inter. Addirittura l'Italia, la patria dei portieri. Ma l'Atletico Marte non mi vendeva. Niente Francia. Niente Italia. Cosa vuoi di più, mi sento chiedere. Hai giocato un mondiale. Hai giocato contro l'Argentina. Hai visto Maradona. Io non sapevo cosa avrei voluto di più, sapevo cosa avrei voluto di meno.
Avrei voluto prendere meno gol contro l'Ungheria. Furono dieci in tutto. Non per colpa mia. Arrivammo al Mundial di Spagna senza sapere niente di niente, e niente di nessuno. Non avevamo mai visto una partita dell'Ungheria, e chi doveva vederla: io? Eravamo arrivati in Spagna appena tre giorni prima. In totale povertà. Fummo l'unica squadra presente con 20 giocatori anziché 22 (*). Così aveva deciso il presidente della federazione, Felix Mayorga Castillo: lasciò a casa tre dei miei compagni per far salire sull'aereo che ci portava in Spagna tre dirigenti in più, amici suoi. Alzammo la voce, ci facemmo sentire, mettemmo insieme un po' di soldi di tasca nostra affinché potessero venire anche gli esclusi. Quando la cifra pareva che bastasse, sapemmo che alla Fifa erano stati comunicati solo 20 nomi.
Il viaggio fu interminabile. Da San Salvador ci trasferimmo in Guatemala, dove passammo una notte. Il volo della Iberia che doveva portarci a Madrid fece scalo a San Jose e poi a Santo Domingo. Da Madrid prendemmo l'ultimo aereo per Alicante. Due giorni interi di volo, un viaggio organizzato in modo folle. L'Honduras, per esempio, era già in Spagna un mese prima del Mundial. Noi ci arrivammo distrutti, non riuscivamo a chiudere occhio. La Adidas offrì quattro divise bianche e tre blu per ogni giocatore. Misteriosamente ce ne furono consegnate tre bianche e una blu. Le altre so io dove finirono. Ci dissero che avremmo dovuto indossare la bianca perché in televisione veniva meglio, per noi fu un colpo psicologico persino quella notizia. Poi qualcuno rubò i nostri palloni Tango. Il giorno prima della partita con gli ungheresi, ci facemmo prestare un paio dei loro, ne avevano ventincinque, non ci potevo credere. Sulla nostra incredibile avventura hanno girato un documentario, La Historia de un Gol.
Il giorno prima della partita si presenta in ritiro un tipo spagnolo e dice che può darci una cassetta. Okay, fanno i dirigenti della federazione. Si accordano e firmano un contratto. Quando quello torna, con la videocassetta si porta dietro pure un furgone di vestiti. Voleva venderci anche quelli. Il bello non è questo. Il bello è che noi li comprammo.
In campo finì come finì. Eravamo 5-0 sotto e ancora credevamo che avremmo potuto pareggiare contro gli ungheresi perché avevamo studiato la cassetta. A metà partita ero intontito per un colpo preso alla testa. Al sesto del secondo tempo dalla panchina dissero che sarei stato sostituito, ma il cambio non arrivava mai. E mai sarebbe arrivato fino alla fine. Mauricio Rodriguez, il ct, scelse di lasciarmi tra i pali per paura di bruciare in una sola partita due portieri. Decise di far affondare solo me. Quando Baltazar Ramirez Zapata segnò il nostro unico gol, portandoci sull'1-5, lo pregammo per carità di dio di non esultare troppo, di trattenersi, altrimenti gli ungheresi si sarebbero arrabbiati e chissà quanti ce ne avrebbero fatti ancora. Zapata si frenò, ma gli ungheresi no, ne segnarono comunque altri cinque-
Ricordo il silenzio che c'era nel pullman al ritorno in albergo. Confesso che non mi sono accorto in quell'istante di quel che stava capitando. Ero diventato il portiere ad aver preso più gol in una sola partita della coppa del mondo. Altro che montòn de plata. La chiamarono debacle, tragedia, umiliazione. Il giorno dopo tenemmo una riunione a porte chiuse e decidemmo di cambiare tattica, per non prenderne altri dieci con il Belgio e con l'Argentina. Si decise che i giocatori avrebbero preso il comando, la squadra l'avremmo fatta noi. Guy This, il ct del Belgio, disse che El Salvador era la vergogna della Fifa. Perciò con loro facemmo la battaglia e perdemmo solo 1-0. Alla fine si rimangiò le sue parole, ci chiese scusa. E poi Maradona: si mise anche lui. Disse che se l'Ungheria ce ne aveva segnato dieci, allora l'Argentina poteva farcene undici. Furono costretti a fermarsi a due, e lui neppure uno. Quella partita rischiammo di non giocarla. Quando l'arbitro Barrancos si accorse che non avevamo gli accrediti con noi, mancava meno di un'ora. Eravamo allo stadio e i nostri documenti erano in albergo, a 85 chilometri di distanza. L'unico modo di farcela in tempo era prendere un elicottero. Ovviamente l'elicottero non c'era. Credo che alla fine giocammo senza accrediti e documenti.
Quando tornammo a casa, arrivarono le critiche, chiamiamole così. Nessuno era più disposto a ricordare che per arrivare a perdere una partita per 10-1, ne avevamo vinte 16 nelle qualificazioni prendendo solo un gol. Con un ragazzino di diciott'anni in porta. Con la guerra civile nel nostro paese. Non si parlava di politica in nazionale, la sola cosa che ci preoccupava è che nessuno della squadra venisse coinvolto. Nel paese eravamo famosi, nessuna delle fazioni ci avrebbe fatto un graffio. Mi hanno fermato molte volte, mi hanno sempre lasciato andare, sapevano chi ero. Ma in piena guerra, durante i trasferimenti della squadra, ricordo i nostri occhi sbarrati davanti ai cadaveri nelle strade. E noi impotenti, condannati a giocare.
Per me le minacce di morte arrivarono dopo il Mundial. Da El Salvador sono scappato. Non per paura di essere ucciso. Il giorno che mi mitragliarono la macchina, per fortuna non ero lì dentro. Sono scappato perché i dirigenti della federcalcio si stavano vendendo tutto. Sarei potuto andare in Costa Rica, alla fine preferii il Guatemala. Il giorno prima di passare il confine quasi mi linciavano. Sentii alla radio un tipo che incitava la folla. Ma non me la sono presa. Questo è il mio paese. El Salvador. Non puoi castigare un reato fino a che non viene commesso.
(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Luis Guevara Mora sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
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(*) 22 e non 23
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