mercoledì 5 maggio 2010

Francillon, cuore di Haiti


Prima ci provò Mazzola. Poi Facchetti. Poi mi trovai di fronte Giorgio Chinaglia e parai anche il suo tiro, prima di lanciarmi in tuffo su un colpo di testa di Gigi Riva. E di nuovo su Mazzola. Altre due volte. Se la mia Haiti era sullo 0-0 alla fine del primo tempo contro la grande Italia, insomma, era per merito mio. Un miracolo. Un doppio miracolo. Perché a noi di Haiti, nel giugno del '74, pareva già tanto essere arrivati lì
. Ai Mondiali di calcio in Germania. Sono passati quasi quarant'anni, e a un Mondiale non siamo più tornati. Per arrivare guardare da vicino l'Italia, e poi la Polonia, e poi l'Argentina, i nostri sforzi furono finanziati direttamente da Jean-Claude Duvalier, il figlio di François, Papa Doc, dittatore fino al '71. Lo sciamano, lo stregone, la divinità voodoo.
Francillon con Zoff
Francillon con Zoff
 Aveva convinto gli Stati Uniti d'America che sarebbe stato lui il baluardo contro il comunismo di Castro. Aveva un metodo sicuro per quelli che in patria non si convincevano. Li ammazzava. Quattrocentomila dissidenti, si diceva. Jean-Claude era suo figlio. Prese il potere a 19 anni, lo chiamavano Baby Doc, sarebbe rimasto in carica fino alla rivolta popolare del 1986. Ecco. Nel '73 erano stati i Duvalier a ottenere dalla Fifa che tutte le gare del girone di qualificazione ai mondiali si tenessero ad Haiti. Ovviamente ci qualificammo noi. A tutti venne regalata una Fiat 147 e un viaggio in Germania con qualche mese di anticipo, affinché ci preparassimo nel miglior modo possibile alla prima partita, Haiti contro Italia. Così vendetti la mia Datsun per 900mila lire.
Ai Mondiali eravamo arrivati proprio grazie a un allenatore italiano, Ettore Trevisan. Un triestino. Come Rocco, Valcareggi e Maldini. Venne a insegnarci la maniera di stare in campo. Attacchiamo, diceva, attacchiamo. Le ali rientrano, i terzini si inseriscono. E noi a guardarlo con gli occhi di fuori. Via il libero, diceva: ci insegnò a essere aggressivi, ci tolse di dosso la rassegnazione con cui andavamo in campo. Ma quando la qualificazione era ormai raggiunta, successe qualcosa. Trevisan non venne invitato alla festa, partì una campagna contro di lui sui nostri giornali, in federcalcio lo definirono uno sconosciuto. Qualcosa c'entrava il suo contratto. Era un dipendente del ministero italiano degli Esteri, sul passaporto c'era scritto: consigliere speciale della federcalcio di Haiti. Da noi era giunto come inviato dell'ufficio di sostegno ai Paesi in via di sviluppo.

francillonPiù si avvicinava il Mondiale, più Ettore diventava un estraneo. Soprattutto quando finimmo nello stesso girone dell'Italia. Per i Duvalier, l'uomo venuto dall'Italia adesso era una spia di Valcareggi. Due volte gli sono entrati degli estranei in casa, una notte volevano trascinarlo in aeroporto per rimetterlo sul primo volo verso Roma. C'era anche una faccenda di premi da chiarire. Ettore era uno in più con cui dividere, in federcalcio avevano deciso di tagliarlo fuori. A Ettore eravamo affezionati. Sanon era il suo pupillo. Diceva che per lui era un Gigi Riva con il piede destro. Ma la dittatura pretendeva elogi solo per sé. L'haitianità con Ettore era a rischio. Nella rosa c'era un solo giocatore bianco, Vorbe, il figlio del presidente della federazione. A Trevisan fecero pagare un'intervista rilasciata a gennaio a un quotidiano italiano, nella quale raccontava che noi calciatori di Haiti abitavamo in delle baracche, eravamo mal nutriti e che per qualificarci al Mondiale avevamo dovuto vincere i nostri complessi verso l'uomo bianco. A febbraio si dimise. Trevisan tornò in Italia. All'aeroporto si presentò con dei fogli scritti a mano da sua moglie Ada, li consegnò ai giornalisti. Era una sua intervista già trascritta: domande e risposte. Così non facciamo altro casino, disse.

Francillon in Haiti-Argentina
Francillon in Haiti-Argentina
Della squadra in Germania si occupava Antoine Tassy, un funzionario che a Ettore aveva fatto da vice. Ci teneva tutti reclusi nell'ostello in cui alloggiavamo. Durante il periodo del ritiro uscimmo soltanto una volta. Per una gita allo zoo. Contro l'Italia andammo in vantaggio a inizio secondo tempo, Capello in campo ce ne disse di tutti i colori, e per 6 minuti - fino al pareggio di Rivera - a Port au Prince ci furono feste, caroselli e colpi di pistola sparati in aria. Il giorno in cui l'Italia cominciava a mandare in pensione i suoi campioni, avevamo previsto tutto. Le discese di Facchetti sulla fascia, gli assist di Rivera, i movimenti di Riva. Solo a una cosa non eravamo pronti. La pioggia. Per mesi ci eravamo allenati sulla terra battuta, con le suole lisce. Sapevamo tutto dell'Italia, ma non sapevamo come rimanere in piedi sull'erba bagnata. E l'erba quel giorno era fradicia. Perdemmo, ma non crollammo: 3 a 1.

   

Peggio andò nelle altre partite: 0-7 con la Polonia, 1-4 con l'Argentina. Quando tornammo a casa, ci mettemmo poco a capire che l'aria intorno a noi era cambiata. Baby Doc non volle riceverci. Eravamo fuori dal suo giro. Il calcio venne cancellato dagli sport ufficiali dell'isola. Fine dei privilegi. Bisognava capire che era meglio andarsene, così tornai in Germania. Il Monaco 1860, la seconda squadra della Baviera, mi pagò un ingaggio mensile di quattromila marchi, pari a un milione di lire dell'epoca. Per noi tifava la Monaco di Schwabing, la parte della città cara agli artisti e agli studenti. Abitavo in una villa con tre stanze da letto, un salotto, doppi servizi, più mille metri quadrati di giardino. Un arredamento tutto sommato anonimo. Divani e poltrone ricoperte di tela grigia. In casa mi avevano lasciato l'imitazione di un tappeto persiano e una libreria gigantesca senza neanche un libro. Wilbrechtstrasse 53, quartiere di Solin, casette basse e tutte uguali, vivevo tra operai specializzati e impiegati. Ma faceva freddo. Troppo freddo. L'allenatore Merker mi cacciò perché non avevo imparato neppure una parola di tedesco. Di me diceva che ero il titolare, eppure non giocavo mai. "Non puoi dirigere la difesa se non impari la nostra lingua".
Chantal, mia moglie, parlava un po' d'inglese. Aveva studiato a New York da segretaria. Tedesco niente. in quel periodo era incinta, aspettavamo il nostro secondo figlio. Cosa potevo fare se non stufarmi d'aspettare?
Tornai a casa, avevo ancora un nome, lo spesi in politica. Ma quando diventai il senatore Francillon, capii per la seconda volta che l'aria era cambiata. Nel '90 mi spararono un colpo di pistola, e per me era già uno di troppo. Via. Di nuovo. Stavolta a Boston. A fare il coach in un college. Sanon si è rifugiato in Belgio, soltanto Vorbe è rimasto a vivere nella nostra terra. La vita di Haiti non è più stata senza tormenti. Fino al terremoto del gennaio 2010. Lo stadio in cui la nazionale aveva giocato le partite per la qualificazione del '74 è diventato un campo d'accoglienza. Il palazzo della federcalcio che frequentavo, non c'è più. Caduto: 32 morti. I calciatori, quattro anni fa, vennero tutti portati ad allenarsi in Texas. "Abbiamo buon cibo e dormiamo bene, ma non possiamo dimenticare chi è rimasto a casa", dissero da lì. Haiti a un Mondiale, chissà se ci sarà una seconda volta.

(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a Henry Francillon sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)

14 commenti:

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